«Servono meno tentennamenti, più fermezza»: è il monito lanciato da Irene Tinagli, eurodeputata del PD, di fronte alla nuova stretta protezionistica di Donald Trump.
In questa intervista al Sole 24 Ore, Tinagli invita l’Europa a smettere di subire e a reagire con decisione, puntando sull’autonomia strategica, sulla difesa della propria industria e sull’applicazione rigorosa delle regole, a partire dalle big tech.
Senza scatenare una guerra commerciale, ma mostrando di avere strumenti e volontà per farsi rispettare.
Come valuta lei questa decisione di Trump di introdurre dazi del 30%?
Molto negativamente, se vogliamo usare un linguaggio politicamente corretto, e con un certo sgomento e preoccupazione, anche per le modalità con cui è stata presa questa decisione. Fanno capire quanto sia difficile un dialogo costruttivo con questo tipo di approccio.
Quali saranno, secondo lei, le ricadute economiche più rilevanti, sia per l’Europa che per l’Italia?
Ci saranno ricadute trasversali su tutti i settori, perché si tratta di dazi indiscriminati. L’Europa è un continente fortemente esportatore con un’economia molto aperta, quindi inevitabilmente soffriremo. L’Italia sarà particolarmente colpita nei settori a maggiore vocazione all’export: moda, tessile, automotive, agroalimentare. Ma anche meccanica, farmaceutica e altri settori spesso meno citati saranno toccati. Non dimentichiamo però che anche gli Stati Uniti, e soprattutto i loro consumatori, subiranno conseguenze. Non sarà una passeggiata neppure per loro.
Che strumenti ha oggi l’Unione europea per reagire in modo efficace?
L’Europa ha delle vulnerabilità, come le dipendenze da cui deve emanciparsi — energia, difesa, sicurezza — ma possiede anche leve importanti. Serve accelerare sull’autonomia strategica. Non significa autarchia, ma diversificazione intelligente delle supply chain e rafforzamento dell’industria europea nei settori vulnerabili, come l’energia e la difesa. Inoltre, possiamo condizionare la maggiore spesa militare a forniture europee per creare un vero settore della difesa comune. Ma noi abbiamo anche altre leve.
Quali, ad esempio?
Ad esempio, Trump giustifica i dazi per riequilibrare il trade balance, ma nessuno ricorda che gli Stati Uniti hanno un forte surplus nei servizi digitali e finanziari. Noi possiamo lavorare su questo fronte, non come ritorsione, ma applicando rigorosamente le nostre regole, specialmente sulle big tech.
In che modo?
Abbiamo già introdotto normative come il Digital Markets Act e il Digital Services Act. Molte big tech non le rispettano e chiedono trattamenti di favore. Invece, dobbiamo applicare le regole in modo serio e tempestivo, portando avanti le procedure avviate e imponendo le sanzioni previste.
Una strategia di fermezza, più che di ritorsione?
Esatto. Non è una ritorsione, è una questione di rispetto delle regole. E possiamo anche andare oltre: ad esempio, introdurre una vera digital tax europea.
Oggi esiste in forme diverse in Francia, Italia, Austria, Spagna. Una digital tax comune al 3–5% potrebbe generare fino a 37 miliardi e mezzo di euro, da reinvestire nell’industria e nella difesa europee.
Ci sono altri strumenti a disposizione?
Sì, come una regolamentazione più rigorosa del trattamento dei dati estratti in Europa e trasferiti negli Stati Uniti, dove non godono della stessa protezione. O ancora, il tema delle stablecoin in dollari: gli USA vorrebbero la libera circolazione in Europa, ma noi dovremmo piuttosto accelerare sull’euro digitale e sui nostri sistemi di pagamento per ridurre la dipendenza da circuiti americani.
Insomma, le leve ci sono.
Il problema è che non le stiamo usando: fino ad ora siamo stati troppo tentennanti e accomodanti. E non ha portato a grandi risultati.
In sintesi, serve una linea più netta da parte della Commissione, considerando anche che Ursula von der Leyen è stata spesso definita troppo prudente?
Sì, assolutamente. Questa linea morbida ha solo portato a un inasprimento. Trump ha aumentato i dazi nonostante le nostre concessioni — dalla NATO alla sospensione dei controdazi — e ha ignorato i nostri segnali distensivi. Questo tipo di approccio con lui non funziona. Serve far capire che siamo un’Unione europea seria, che applica le proprie regole e non fa più sconti.
Secondo lei, dietro la mossa di Trump c’è una strategia più politica o economica?
È un miscuglio. Con Trump logiche politiche, economiche e personali si intrecciano, rendendolo imprevedibile e, mi permetta, pericoloso. Ha un comportamento erratico, non istituzionale. Magari pensa che così risolverà il deficit americano, ma è un’illusione. In realtà, usa i dazi anche per sviare l’attenzione dai suoi problemi interni e rafforzare la sua immagine da “uomo forte”.
Alla luce di questo, pensa che la tensione attuale possa danneggiare in modo permanente la cooperazione transatlantica?
Mi auguro sia una fase temporanea e la mia impressione è che una certa prudenza a livello europeo sia anche legata al fatto che molti governo sperano che la stessa presidenza Trump sia una parentesi, ma temo sia sempre più difficile tornare come prima.
Trump sta cambiando il DNA dell’amministrazione americana, piazzando uomini fedeli ovunque. Se ci riesce, anche in futuro sarà difficile riannodare il dialogo, perché il suo approccio diventerebbe pervasivo e sistemico.
Un’ultima nota politica: uno dei problemi della Commissione von der Leyen è stato il freno posto da governi conservatori, primo fra tutti quello italiano. Hanno sempre cercato di mantenere un’ambiguità nei confronti di Trump, nella speranza di sfruttare i rapporti personali — basti pensare ai viaggi di Meloni negli Stati Uniti.Questa strategia, promossa con vigore da Giorgia Meloni, si è dimostrata fallimentare e ha reso l’Unione europea più debole.
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