“La difesa è diventata ormai un tag per far vedere che si sta facendo qualcosa, ma non basta raggranellare qualche spicciolo qua e là o fare affidamento sugli artifici contabili che servono a qualche governo per aumentare la percentuale di spesa sul Pil. E’ il momento di avviare un percorso serio per una vera difesa comune, che non significa solo un esercito europeo ma anche e soprattutto progetti ed acquisti comuni, e un maggior coordinamento”. A parlare così è Irene Tinagli, eurodeputata del Pd, già presidente della commissione Econ a a Bruxelles ed oggi a capo della commissione speciale per l’emergenza abitativa nell’Unione Europea. Stretta tra le tensioni geopolitiche legate alla guerra in Ucraina e al conflitto in Medioriente, l’Europa si interroga su come potenziare le politiche della difesa. “Non è soltanto una questione di percentuali”, avverte Tinagli.
Cosa deve fare l’Ue allora?
“L’Europa è chiamata a uno sforzo che deve puntare all’ottimizzazione ed al coordinamento della spesa attuale, in un percorso che conduca ad una difesa veramente europea e più efficace , questo impegno implica però una volontà politica che al momento non c’è. Basti pensare che l’unico progetto europeo di spesa esistente si è arenato in Consiglio: i governi nazionali non riescono a mettersi d’accordo. Ma se continuiamo a raggranellare briciole diventiamo ridicoli. Serve un atto di coraggio comune per costruire una vera difesa europea”.
Come?
“Innanzitutto indicando le priorità. Il rafforzamento della sicurezza europea significa anche cybersicurezza, per esempio, perché gli attacchi sono in aumento, ma anche sicurezza energetica e quindi, in questo caso, è necessario eliminare le dipendenze che ci rendono vulnerabili”.
Questi gli obiettivi. E gli strumenti?
“Se vogliamo davvero aumentare la sicurezza europea dobbiamo uscire da una logica che guarda alla spesa in difesa come a un mero nunero che poi finisce per tramutarsi in un escamogate contabile e ragionieristico per far salire la percentuale di spesa sul PIL nazionale . E’ importante fare sviluppare un’industria europea della difesa”.
L’Italia punta su un rafforzamento di InvestEu, il programma di rilancio degli investimenti privati. Basta?
“Purtroppo no. È un ottimo programma ma gli investimenti per la sicurezza non possono essere affrontati solo con InvestEu perché questo strumento può soddisfare un bisogno minimo rispetto a esigenze molto più grandi. Servono investimenti pubblici europei”.
Servono gli eurobond, quindi?
“Gli eurobond sono l’unico strumento possibile. Un buon esempio è rappresentato dal programma Safe che fa parte di RearmEu: 150 miliardi, erogati con condizionalità, che sono fondamentali per spingere i Paesi a fare progetti comuni e coordinati. Se la spesa non è coordinata rischiamo di buttare via questi soldi o fare come l’Italia che per aumentare le spese per la difesa butta dentro al conto la Guardia costiera e il Ponte sullo Stretto”.
Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, chiede di intervenire sul Patto di stabilità e aggiornare le regole sulla difesa che altrimenti risulterebbero “stupide e senza senso”, oltre a impedire all’Italia di uscire dalla procedura d’infrazione per deficit eccessivo. Condivide questa impostazione?
“Si, ma ricordo che le regole attuali le ha votate anche Giorgetti meno di due anni fa . E già allora c’erano la guerra e il deficit alto, oltre al fatto che si sapeva che l’Italia sarebbe entrata in procedura d’infrazione. Che il governo italiano si accorga ora dell’inadeguatezza di queste regole è un po’ curioso. Avrebbe fatto meglio a utilizzare la sua capacità di negoziare sulla riforma del Patto di stabilità piuttosto che concentrarsi sul veto al Mes”.
Il Patto è inviolabile?
“Tutto è modificabile ma andrebbe fatto nei modi e tempi giusti. la riforma del patto l’abbiamo fatta nella scorsa legislatura, abbiamo lavorato due anni con l’idea di fare regole più flessibili e poi alla fine ci si è incartati in una serie di clausole che hanno finito per irrigidire lo schema, costringendoci di nuovo al ricorso alla clausola di salvaguardia alla prima crisi. Segno che la riforma poteva essere fatta meglio, come dicevamo noi in Parlamento. Ma all’epoca non ci fu verso di ragionare con il Consiglio. Forse è stato imprudente, come ha fatto qualcuno, esultare per una piccola flessibilità sul deficit”.
A proposito di politiche comuni. Il Parlamento europeo ha chiesto una proroga del Recovery, ma la Commissione tiene il punto sulla scadenza di agosto 2026. Come si supera questa contrapposizione?
“Allungare i tempi per i progetti maturi non deve essere un tabù. La proroga non deve diventare un alibi per prendersela comoda, ma un po’ più di tempo per completare i progetti è un compromesso accettabile. Penso che alla fine prevarrà il buonsenso”.
Intanto l’Europa prova a rilanciare le politiche abitative e lei che presiede la commissione Housing sta lavorando su questo dossier. Il governo italiano punta sul Piano Casa. E’ sufficiente?
“Il problema del governo italiano è che non si occupa di casa. Da Salvini arrivano un po’ di annunci e qualche slide, ma non c’è nulla di concreto. Mancano una visione e il senso dell’urgenza. Bisognerebbe quantomeno avere una mappatura dei bisogni e puntare sia su maggiori fondi pubblici che su strumenti che possano stimolare il partneriato pubblico-privato per costruire politiche serie e di lungo periodo. Tra l’altro, manca totalmente una riflessione profonda sui fattori che in alcune città stanno mettendo sotto pressione il mercato residenziale facendo schizzare i prezzi: il tema dei flussi turistici e degli affitti brevi, il tema della mobilità studentesca che è aumentato senza che però sia aumentata l’offerta di studentati. In Europa stiamo facendo una riflessione ampia che chiama in causa non solo fondi per nuove costruzioni ma regolamentazioni che aiutino a fare tornare il mercato della casa alla sua funzione originaria: dare una possibilità di abitazione accessibili ai cittadini. Tutto questo è totalmente assente nel dibattito italiano”.