«Io credo che si stia facendo un grave errore nel mischiare vicende giudiziarie e orizzonti politici».
Irene Tinagli, europarlamentare del Pd, milanese d’adozione ai tempi dell’università Bocconi, a Bruxelles presiede la commissione speciale per la Crisi abitativa.
Prima di parlare del cambiamento che il centrosinistra chiede al sindaco Sala per i prossimi due anni, partiamo dalla tempesta giudiziaria di questi giorni. Qualcuno sostiene si stia facendo un processo alla città. Cosa ne pensa?
«C’è molta confusione. Un conto è un’inchiesta che indaga su eventuali illeciti, un conto sono le scelte fatte per rigenerare Milano, per farla diventare una città internazionale. Quelle sono scelte politiche che si possono criticare o meno, ma ritengo debbano essere tenute radicalmente distinte dagli aspetti giudiziari. Non è che se c’è un modello di crescita in cui si guarda l’internazionalità, in cui si portano investimenti, allora quello è il modello corrotto, è profondamente sbagliato fare questa equazione. Si può dire che è un modello che è stato meno efficace nel contrastare le disuguaglianze che sempre accompagnano processi di crescita così profondi e rapidi . Disparità che oggi vanno colmate con nuove politiche pubbliche».
E qui veniamo al cambio di passo auspicato dal suo partito e che molto ha a che fare con le politiche per la casa, oltre che con l’urbanistica in senso stretto. Che strada va intrapresa secondo lei?
«A Milano si è messo in atto un grande processo di rinascita della città dopo la crisi industriale. In Europa, ma anche negli Stati Uniti, tante città fortemente industriali hanno dovuto reinventarsi nell’era dei servizi e della globalizzazione. Milano, in particolare, è partita cercando di riqualificare le zone dove prima sorgevano le grandi fabbriche, immaginando nuove funzioni. È chiaro che poi questo percorso va adattato e completato: ora ciò di cui Milano ha più bisogno è un’attenzione speciale sulla coesione sociale, sulla solidarietà, sull’inclusione, sull’accessibilità. E in questo senso il tema dell’abitare è centrale. Bisogna insomma affrontare gli effetti collaterali della grande crescita che Milano ha visto negli ultimi anni».
Come si passa dalle buone intenzioni alle azioni concrete?
«Intanto Milano non parte da zero, diversi provvedimenti sono stati presi. penso al “Piano casa” ad esempio. Bisogna lavorare in un contesto — che è lo stesso di altre grandi città Europee — in cui, soprattutto dopo il Covid, sono schizzati i prezzi delle case e sono nate diverse problematiche nuove. Ora serve concentrarsi sull’offerta di alloggi per il ceto medio che abbiano affitti accessibili».
Come?
«Con un insieme di politiche che deve coinvolgere più attori. L’esempio virtuoso che si porta sempre è quello di Vienna. Un modello increbile e molto particolare: due terzi della popolazione cittadina vive in appartamenti a prezzi calmierati. Il social housing è diventato uno strumento sistematico per rispondere ai bisogni della classe media. E parliamo di prezzi che sono inferiori a quelli di mercato per il 20-25, se non a volte il 30 per cento. C’è una forte regia pubblica e un coinvolgimento strutturale del privato sociale. Anche a Milano ci sono progetti di questo tipo, soprattutto del mondo cooperativo. Il punto è capire in che modo far sì che non siano solo piccoli progetti isolati, ma che possano essere pienamente integrati in un modello scalabile, messi più a sistema e più a servizio della città».
Con quali fondi?
«Ecco, il governo federale austriaco dà al Comune di Vienna 250 milioni l’anno per le politiche abitative. Il governo italiano, al contrario, non ha alcuna visione su questo tema. Stiamo aspettando il piano casa di Salvini da due anni come si aspetta Godot. Tanti annunci e tavoli ma ancora nulla di concreto.