In questi giorni è sorta una polemica sulla applicabilità o meno al settore pubblico delle nuove norme sul lavoro introdotte dal Jobs Act e dai primi decreti delegati. I Ministri Poletti e Madia hanno subito escluso la sua applicabilità alla Pubblica Amministrazione, ma il senatore Ichino, uno dei più noti giuslavoristi italiani, ha evidenziato in una intervista al Corriere come la nostra normativa (specificamente l’art.2 comma 2 del Testo Unico sul pubblico impiego, ovvero il DL 165/2001) preveda che il lavoro pubblico sia soggetto alle stesse norme generali del settore privato. E, poichè nel Jobs Act non vi sono clausole che esplicitamente escludano la pubblica amministrazione dal suo campo di applicazione, si intende che la nuova normativa si applichi sia al settore privato che a quello pubblico. Questa specificazione ha aperto un vespaio di polemiche.
Membri del Governo e dirigenti del PD come Filippo Taddei hanno subito smentito Ichino, dicendo che l’argomento verrà affrontato dopo, ma non hanno detto agli italiani se ritengono o meno che il pubblico impiego debba avere un trattamento speciale rispetto al privato. Non è un dettaglio irrilevante.
Lo stesso Presidente del Consiglio Renzi in un primo momento, in una intervista a QN, se ne è lavato le mani, rimandando tutto al Parlamento (cosa assai curiosa per un Premier iperdecisionista come lui). Solo in un secondo momento, probabilmente messo di fronte alla necessità di una presa di posizione più chiara, ha dichiarato di essere stato lui stesso a togliere dal Jobs Act una calusola che avrebbe escluso la PA dal campo di applicazione. Tuttavia questa esclusione non era dettata dalla necessità di garantirne una uniformità di applicazione a tutto il mondo del lavoro italiano. No. Solo perchè, a suo avviso, quella non è materia del Jobs Act e va rimandata alla futura legge delega sulla PA.
Ecco, confesso che questa presa di posizione mi ha piuttosto deluso.
Prima di tutto perchè non è vero – in virtù della normativa citata sopra – che le regole generali del lavoro definite dal Jobs Act non c’entrino nulla con il settore pubblico. Ma soprattutto non condivido la scelta di rimandare tutto alla legge delega sulla PA. Per un motivo molto semplice: prima che tale legge venga approvata in via definitiva e che vengano emanati i decreti attuativi ci vorrà almeno un anno. In questo anno si creerà una gran confusione nel mercato del lavoro, con nuove ed odiose discriminazioni tra i contratti a tempo indeterminato stipulati nel privato e quelli stipulati nel pubblico. Nello stesso periodo, infatti, chi sarà assunto nella PA godrà delle tutele delle vecchie regole, mentre chi verrà assunto nel settore privato sarà assoggettato al contratto a tutele crescenti senza articolo 18.
Ecco, non riesco a capacitarmi di come un governo che ha fatto una bandiera dell’abbattimento del cosiddetto “apartheid” del mondo del lavoro, tra protetti e non protetti, possa creare le condizioni per nuove discriminazioni anziché ridurle.
Senza contare che, secondo quanto previsto dalla legge di stabilità approvata prima di Natale, nel 2015 dovrebbero essere assunti 150 mila lavoratori nella scuola. Assumerli con le regole vecchie significherà introdurre un elemento di forte rigidità nella nostra PA, con 150 mila persone sostanzialmente inamovibili a prescindere da quei processi di riorganizzazione, valutazione e tutte le altre cose che vorremmo (dovremmo) introdurre nella nostra PA. Le vecchie regole, nella PA, hanno generato inefficienze, rigidità, e sono una delle principali cause del blocco del turnover che da anni impedisce l’accesso di persone giovani e preparate nella Pubblica Amministrazione. Sono anche una delle principali cause del dilagare di contratti precari nel settore pubblico e delle esternalizzazioni necessarie per aggirare le norme e i vincoli di assunzione.
Lasciare che il Jobs Act si applichi naturalmente e semplicemente a tutto il mondo del lavoro, pubblico e privato, lasciando alla legge sulla PA solo la definizione delle eccezioni e delle specificità del pubblico impiego, sarebbe stato un modo per dare una svolta importante al nostro Paese, per accelerare il passo delle riforme, per iniziare davvero l’anno con ritmo e, soprattutto, con speranza concreta di cambiamento.
Invece, con queste scelta, l’unico ritmo visibile è una sorta di “andamento lento”. Speriamo che almeno sia continuo e non si interrompa o si annacqui a metà strada come quasi sempre accade in Italia.