La Stampa, 28 Aprile 2012
È un’interessante fotografia del nostro Paese quella che sta emergendo dai primi risultati del Censimento 2011. Interessante non solo per ciò che cambia, ma anche (e forse ancora di più) per ciò che invece resta uguale a se stesso, magari anche in controtendenza con quel che avviene nel resto del mondo. È questo il caso della distribuzione geografica della popolazione sul territorio, che resta molto frammentata. Il 66,4% degli italiani vive in città piccole o medie, con meno di 50.000 abitanti, e solo il 22,8% vive nelle 45 città italiane con oltre 100.000 abitanti.
Non solo, ma questo dato fa parte di un trend che va rafforzandosi. I Comuni di dimensione medio-piccola (tra 5 mila e 20 mila abitanti) hanno aumentato la popolazione dell’8,1% (un valore quasi doppio rispetto a quello nazionale). Quelli di medie dimensioni del 5,2%, mentre nei Comuni grandi la popolazione è rimasta pressoché stazionaria (0,2%). Le grandi città, in sostanza, perdono abitanti mentre sono quelle medie e piccole ad attrarne. Come indica il documento Istat, nei sei Comuni più grandi (Roma, Milano, Napoli, Torino, Palermo e Genova) negli ultimi decenni si è assistito a un lento ma progressivo decremento di popolazione, un decremento che sembra confermato dai dati preliminari (con l’interessante eccezione di Torino e Roma).
Questi dati colpiscono molto perché sono in controtendenza con quanto avviene nel resto del mondo. Da diversi anni ormai molti osservatori internazionali hanno evidenziato una forte crescita delle grandi città. Un fenomeno trainato non solo dallo sviluppo dell’Asia e di altri Paesi emergenti con le loro megalopoli da decine di milioni di abitanti, ma anche dalla rinascita di molte città occidentali, americane ed europee. Città che negli Anni Settanta e Ottanta avevano visto forti contrazioni di popolazione, frutto di un declino e un processo di trasformazione economica e produttiva che aveva colpito sia di qua che di là dall’Oceano.
Una crisi pesante soprattutto per quelle città che fino a quel momento erano state le più prospere e industriose: New York, Chicago, Detroit, Pittsburgh, ma anche Amsterdam, Berlino, Oslo, Stoccolma, per non parlare di luoghi come Manchester o Liverpool (in quegli anni Liverpool perdeva qualcosa come il 4-5% di popolazione all’anno). Poi, negli Anni Novanta, fu chiara l’inversione di tendenza. E recentemente sono tornate a crescere quasi tutte. Persino Detroit e Pittsburgh, che per oltre trent’anni hanno registrato perdite, stanno invertendo tendenza. Stando ai dati delle Nazioni Unite, Oslo negli ultimi anni cresce a ritmi di quasi il 2% annuo, Stoccolma dell’1,7%, Madrid quasi del 3%, Barcellona dell’1,5%, e molte altre segnano aumenti costanti anche se più contenuti.
Una rinascita legata sostanzialmente a due fenomeni. Da un lato alla trasformazione del sistema economico globale, che ha visto l’emergere di nuovi settori industriali legati ai servizi avanzati, alla creatività, l’innovazione e al design – tutte cose che non solo non hanno bisogno di grandi fabbriche nelle periferie, ma che anzi traggono beneficio dalla prossimità a servizi, aziende, professionisti e attività «complementari» alle proprie. Dall’altro lato al parallelo cambiamento nella struttura occupazionale di molti Paesi, con l’aumento del peso di professionisti, manager, designer, ingegneri ed altre professionalità altamente qualificate. Persone che, come mostrano molti studi, tendono a preferire uno stile di vita «urbano», con più servizi e con maggiori attività ricreative e culturali a disposizione.
Non è un caso se oggi città come New York, Londra, Stoccolma o Oslo hanno percentuali di professionisti e «lavoratori creativi» che vanno dal 40 al 50% della forza lavoro. Questi due fenomeni hanno ridisegnato e continuano ad influenzare profondamente la geografia economica e sociale non solo dei Paesi emergenti ma anche di quelli industrializzati, con conseguenze importanti sulla loro capacità di produrre innovazione, attrarre talenti ed investimenti internazionali, nonché di sfruttare sinergie ed economie di scala che consentono di realizzare una miglior efficienza energetica e minor impatto ambientale (numerosi studi recenti mostrano un impatto ambientale pro capite significativamente minore nelle grandi città che nelle piccole).
Di fronte a queste dinamiche internazionali, le tendenze che si stanno registrando in Italia non possono che sollevare riflessioni ed interrogativi. Non si tratta né di mettere sotto accusa né di difendere incondizionatamente la nostra struttura territoriale, ma semplicemente di analizzare in modo serio tutte le caratteristiche e le implicazioni di una realtà urbana che è al tempo stesso conseguenza e concausa di importanti dinamiche economiche e sociali del Paese. Per troppo tempo abbiamo trascurato le problematiche e le potenzialità delle nostre città e della peculiare «geografia economica» che ci caratterizza, con riflessioni superficiali o ideologiche, dati approssimativi e politiche urbane scarse se non inesistenti. Forse è il caso, almeno su questo, di invertire tendenza.