di Irene Tinagli, pubblicato su Il Sole 24 Ore del 18 Aprile 2020
“La politica ha le sue ragioni che la ragione non conosce”. Si potrebbe parafrasare così il dibattito un po’ surreale che in Italia ruota attorno al Mes. Per mesi le opposizioni hanno cavalcato l’idea del Mes come una mannaia, una trappola dei Paesi nordici per “spolparci” e strangolarci. E, curiosamente, neppure l’accordo raggiunto all’Eurogruppo per una linea di credito senza condizionalità ha placato le polemiche, anzi. Subito sono iniziate le congetture sulle “nuove trappole” nascoste dentro l’accordo: chi sostiene che il commissariamento “macroeconomico” scatterebbe ugualmente e automaticamente dopo un certo periodo, chi invece sostiene che le condizionalità potrebbero essere introdotte per effetto di una decisione successiva degli Stati a noi “ostili”.
Quest’ultimo punto sarebbe in realtà ancorato ad un altro regolamento, parte del cosiddetto “Two-pack”, secondo il quale la Commissione (non alcuni Stati!) potrebbe proporre al Consiglio una revisione delle condizionalità macroeconomiche a cui è stato sottoposto un Paese che abbia avuto accesso alla linea di credito precauzionale del MES. Al di là della improbabilità di uno scenario in cui sia la Commissione (con un Commissario italiano agli Affari Economici) che il Consiglio (cioè gli stessi Stati Membri che hanno deciso unanimemente e pubblicamente di creare una linea di credito senza condizionalità), ci ripensino subito dopo, ci sono altri aspetti tecnici non chiari. Se, come dice il Two Pack, una linea di credito precauzionale non prevede necessariamente la sottoscrizione di un programma di aggiustamento macroeconomico, e se l’accordo dell’Eurogruppo specifica chiaramente che la nuova linea di credito precauzionale che si vuole creare nel Mes non debba essere collegata a delle condizionalità macroeconomiche, non si capisce in che modo Commissione e Consiglio potrebbero, ad un certo punto, modificare le condizioni di un programma non esistente.
Eppure questo colpisce del dibattito sul Mes: la veemenza e la perentorietà (spesso basata su premesse parziali o fallaci) con cui viene raccontato e attaccato un accordo che, oltretutto, non è ancora perfezionato. Colpisce la foga e l’urgenza di costruire un caso politico, una chiamata alle armi preventiva su una cosa ancora in via di definizione.
In un Paese normale il dibattito in questa fase dovrebbe ruotare attorno a questo: la definizione dei dettagli da negoziare e un poi l’impegno a confrontare le opzioni, valutare con razionalità le varie alternative per l’interesse comune. E invece in Italia i dettagli vengono ipotizzati, mischiati, interpretati, a volte inventati ma, soprattutto, strumentalizzati per farli divenire arma politica contro il Governo. Quasi una scommessa sulla nostra sconfitta.
Visto dall’Europa questo dibattito così polarizzato fa impressione, perché non esiste in nessun altro Paese. Neppure in quei Paesi che, in teoria, dovrebbero aver paura del Mes molto più di noi, perché ci sono già passati, come per esempio la Spagna o il Portogallo.
Una politica seria sa valutare i pro e i contro di ogni opzione sulla base della situazione in cui si trova e alle alternative disponibili. E’ importante saper fare queste valutazioni con tempismo, realismo e razionalità. L’Italia è un grande Paese, ha un tessuto produttivo e industriale solido e tutte le condizioni per potersi rialzare, ma non può ignorare d’essere entrata dentro a questa crisi con un debito già altissimo, crescita quasi azzerata e pochi margini di manovra. Per adesso, grazie anche all’ombrello della BCE, stiamo riuscendo ad affrontare la crisi in modo forte, credibile e a finanziarci agevolmente sui mercati. Ma l’esperienza del 2011 ci insegna che questo potrebbe cambiare rapidamente, soprattutto se la politica italiana dovesse dare l’impressione di essere caotica, frammentata e incapace di decidere. La compattezza e l’affidabilità del nostro sistema politico saranno fondamentali per mantenere un quadro positivo.
Per questo dobbiamo utilizzare bene questo periodo per fare tre cose. Primo, continuare a negoziare perché il ventaglio degli strumenti europei a disposizione sia il più ampio e corposo possibile. Secondo, valutare con razionalità tutte le opzioni senza cedere a reazioni emotive o propagandiste. Infine, dobbiamo lavorare a casa nostra su un piano di ripresa attorno al quale ci sia compattezza da parte di tutte le forze politiche e le parti sociali: dobbiamo lavorare uniti perché ogni euro di aiuto, da qualsiasi strumento esso arrivi, vada esattamente dove deve arrivare, identificando le priorità per far ripartire l’economia, evitando sprechi e ritardi. Non esiste strumento o finanziamento europeo che possa servire se tutto il Paese non sarà poi in grado di lavorare insieme per canalizzare le risorse messe in campo.
Tutto questo si può fare se la politica ritrova le ragioni della razionalità e del bene comune, e se tutti tengono a mente che giocare allo sfascio potrà anche essere redditizio da un punto di vista elettorale, ma poi governare sulle macerie non potrà essere una vittoria per nessuno.