Ora che Next Generation Eu, il maxi pacchetto di aiuti da 800 miliardi in prezzi correnti, sta diventando operativo con i primi via libera ai piani nazionali di ripresa, tra cui quello italiano, e con le prime emissioni di bond, bisogna cominciare a riflettere sulla «qualità della ripresa» e sulle regole per il futuro. «Non c’è tempo da perdere», spiega Irene Tinagli, presidente della commissione Problemi economici del Parlamento Ue e vicesegretaria vicaria del Pd.
A ottobre la Commissione presenterà una proposta per riformare il Patto di stabilità. Quali sono i margini di manovra?
«Non c’è ancora la proposta, c’è una consultazione aperta e numerosi dibattiti nei quali si affronta il tema delle regole e della governance economica europea. All’Ecofin informale di Lisbona di inizio giugno hanno partecipato ad esempio anche Vítor Constâncio e Lucrezia Reichlin. Gli esperti sono tutti abbastanza concordi nelle loro analisi. Ma poi ci sono le dinamiche politiche. Ora è un momento delicato perché ci saranno in settembre le elezioni tedesche. Però la riflessione è aperta».
Gli input di riforma del Patto su che linee si muovono?
«I Paesi più aperti verso un cambiamento chiedono di dare la possibilità di creare, all’interno di questo sistema di regole molto complesso e che pone obiettivi poco realistici nel medio termine, degli spazi per gli investimenti pubblici, che negli anni passati con le regole attuali sono stati più penalizzati. Tutti riconoscono che nei prossimi anni avremo ancora bisogno di sostenere gli investimenti pubblici per supportare la ripresa e completare le transizioni ecologica e digitale. Per alcuni paesi la parola “golden rule” è problematica, magari troveremo altre declinazioni, però è necessario trovare lo spazio per alcune tipologie di investimenti. Il tetto del 60% è nei trattati e sarà difficile da cambiare, ma si può lavorare sulle norme del Six Pack e del Two Pack, cioè sul tipo di percorso di rientro perché sia graduale per evitare che tutti i Paesi dal 2023 si mettano a fare politiche restrittive insieme. Come ha detto più volte il commissario Gentiloni servono regole realistiche. Prima si inizia a ragionare su queste modifiche meglio è per dare agli Stati un po’ di certezza».
I fondi di Next Generation Eu basteranno per la ripresa?
«Dobbiamo accendere un fuoco: il Recovery Fund è la miccia anche se molto corposa ma poi dobbiamo fare attenzione a continuare ad alimentare questo fuoco, questa crescita. Si tratta di risorse molto concentrate su alcuni capitoli di investimento, e molte di queste risorse sono prestiti che faranno salire il debito. Per questo è fondamentale porsi il problema di come innescare una crescita forte che duri anche dopo il Recovery, che è uno strumento temporaneo. Dovremo continuare a sostenere gli investimenti ma anche cominciare a vedere le riforme in Italia e in Europa con occhio diverso: non servono per tagliare la spesa ma sono un modo per far funzionare meglio il motore e crescere di più».
La presidente della Bce Christine Lagarde ha detto che vede un rischio limitato nel medio termine nel legame tra debito sovrano e banche. Questo aiuterà a procedere sull’Unione bancaria?
«Lagarde è stata coraggiosa nello specificare questo punto, sa che è uno degli elementi che maggiormente sta bloccando ulteriori passi in avanti verso l’Unione bancaria. È importante che lo si dica, siamo in una situazione diversa rispetto ad alcuni anni fa. Politicamente resta un tema delicato. Ma queste parole danno conferma della correttezza della posizione italiana secondo cui il completamento dell’Unione bancaria con un sistema europeo di assicurazione dei depositi è fondamentale per garantire maggiore stabilità finanziaria, e che la diversificazione (e riduzione) dei rischi legati ai debiti sovrani la si ottiene con un “safe asset” europeo».
L’Italia è penultima nell’Ue per numero di laureati e nello stesso tempo le aziende si lamentano di non trovare le figure professionali di cui hanno bisogno. Basterà il Pnrr per risolvere questa emergenza?
«Si tratta di una situazione, quella delle professionalità che non si trovano, impellente per l’Italia ma che sta emergendo anche in altri Paesi. Nel momento in cui si fanno investimenti nuovi che cambiano completamente i processi produttivi succede che servano competenze tecniche che magari non sono ancora pronte. È necessario quindi cambiare i nostri sistemi educativi e allineare gli investimenti in infrastrutture a quelli in capitale umano e istruzione. Il Partito Democratico è riuscito ad avere 1,5 miliardi nel PNRR per gli istituti tecnici, oltre a risorse importanti per le residenze universitarie. Servono poi interventi per aiutare il sistema produttivo a crescere perché i giovani si laureano quando pensano che serva davvero. Oltre a rimuovere le barriere allo studio, bisogna rimuovere quelle alle opportunità che vengono dopo i titoli di studio».
In prospettiva la crisi del M5S che impatto avrà sul Pd?
«È una crisi dagli esiti difficilmente prevedibili specialmente per chi sta fuori dal movimento. Non credo che ci potranno essere ripercussioni su questo governo. Mi conferma l’idea che la priorità del Pd è rafforzare il ruolo come perno di un’alleanza ampia di centrosinistra: ci dobbiamo concentrare su di noi, sulla nostra capacità di aggregare ma soprattutto di parlare ad un elettorato ampio e desideroso di un’Italia più moderna, più aperta e protagonista in Europa».