La Stampa, 25 Aprile 2012
Di fronte agli ultimi dati dell’Istat sulla frenata dei salari si può reagire in due modi. Si può incolpare la crisi, o l’austerità di Monti e invocare nuove contrattazioni più generose o altre forme di supporto al reddito. Oppure si può cercare di fare un ragionamento più approfondito per capire le radici del problema e quali soluzioni possano funzionare o no. La questione dei salari in Italia, e del parallelo rapporto con i consumi (anch’essi stagnanti) è un problema reale e profondo, ma non c’entra tanto con la crisi né con l’austerità. Ha radici più lontane, che hanno iniziato a manifestare i propri effetti prima della crisi. Già nel 2006 i dati dell’Eurostat mostravano come l’Italia avesse salari medi annuali inferiori del 20-30% rispetto a Paesi come Francia o Germania.
E nel 2007 l’allora governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, in una relazione presentata alla società italiana degli economisti, lanciò un allarme sulla stagnazione di consumi e salari che affliggeva l’Italia già da alcuni anni. Il vero problema, come indicava Draghi e come ha ribadito un paio di giorni fa l’attuale governatore Visco, risiede nella produttività. Proprio la Banca d’Italia in uno studio sui primi dieci anni di Unione Monetaria (1998-2008) ha mostrato come la produttività sia aumentata del 18% in Francia, del 22% in Germania e del 3% in Italia.
Se l’Italia non è in grado di trasformare in maniera efficiente i suoi fattori produttivi in prodotti e servizi competitivi sui mercati internazionali (e farlo su larga scala, non in pochissime nicchie), non possiamo aspettarci che aumentino le retribuzioni, il Pil, i consumi e quant’altro.
Affrontare il nodo della produttività è complesso, e un’analisi completa richiede più spazio di quanto conceda un editoriale. Ma è importante almeno ricordare che parlare di produttività significa parlare non solo di investimenti e nuove fabbriche, ma anche di servizi avanzati, istruzione della forza lavoro (di cui non si parla mai, come se fossimo tutti geni naturali quando invece siamo una delle forze lavoro meno qualificate d’Occidente), e un sistema di regole di mercato e di amministrazioni pubbliche trasparenti, snelle e funzionali.
La funzionalità ed efficienza del sistema in cui operano imprese e lavoratori è fondamentale, ed è data dalla semplicità e dai costi della burocrazia e dall’amministrazione pubblica, dalla qualità dei servizi che produce, così come dalla fluidità di certi mercati, perché più sono protetti e rigidi, più sono inclini a sprechi e inefficienze. Ed è ovviamente legata anche alla dinamicità del lavoro, intesa non solo come flessibilità in entrata ed uscita, quanto come flessibilità nell’organizzazione del lavoro, che è cosa diversa, perché implica poter cambiare rapidamente orari, turni, mansioni e riqualificazioni all’interno dell’azienda, cose complicate con l’attuale struttura della contrattazione.
Tutti questi cambiamenti hanno fatto e continuano a far paura, e l’incapacità di gestirli se non in modo confuso e spesso pasticciato ha portato alla situazione attuale. Il paradosso è che non di rado molte associazioni di categoria, aziende o persino cittadini, preferiscono ridurre un po’ la propria ricchezza pur di non essere costretti a cambiare modo di produzione, lavoro, studio o formazione. In pratica è come se negli anni passati fossimo stati testimoni di una sorta di scambio implicito tra mancanza di riforme complete da un lato e minori redditi dall’altra.
Prendiamo l’esempio della pubblica amministrazione: è vero, come giustamente ricorda il segretario Cgil Camusso, che questo settore ha gli stipendi bloccati da anni (ed è uno dei fattori che traina al ribasso i dati Istat), ma è anche vero che, in Italia come in Spagna o in Grecia, questi blocchi sono la conseguenza di una incapacità di riformarli e renderli più efficienti rispetto ai servizi che erogano.
Non potendo fare riforme che consentano di risparmiare risorse e migliorare l’efficienza legando i costi all’impegno e ai risultati (riforme sistematicamente vanificate da veti, proteste o da miseri accordicchi che le neutralizzano), l’unico modo per contenere la spesa è bloccare i salari. E’ un metodo sbagliato, ingiusto e inefficiente. Ma a quanto pare è l’unico fino ad oggi accettabile dalle varie «parti» in gioco. E nel settore privato sono emersi comportamenti e soluzioni diverse ma similmente distorte e distorsive ogni volta che si è provato a parlare di liberalizzazioni, riconversioni e così via. Anzi, piuttosto che investire in riforme e risorse per rendere i nostri mercati più aperti a nuovi settori, nuove tecnologie, e a tutto quello che poteva aiutare una riconversione del sistema produttivo, abbiamo speso miliardi per evitare tale riconversione e tenere in vita aziende stracotte e non competitive.
Il problema è che tutte queste mancate riforme alimentano ulteriori inefficienze «di sistema» che a loro volta si traducono in maggiori tasse, maggiori costi di produzione, e in prezzi più alti e/o prodotti e servizi più scadenti. Quindi non basta invocare controlli sui prezzi o rinegoziazioni centralizzate dei salari per risolvere la questione, perché non sono variabili «indipendenti» regolabili dall’alto, ma sono legate alla nostra capacità di cambiare il nostro modo di studiare, lavorare, produrre e gestire la macchina statale. Può sembrare una sfida impossibile, ma non lo è.
Molti Paesi hanno saputo superare crisi e debolezze, basta pensare alla recessione svedese di inizio Anni Novanta, con raddoppio del debito e decuplicazione del deficit, o alla stagnazione del Pil della Germania nei dieci anni dal 1995 al 2005. Paesi che ce l’hanno fatta con riforme profonde e spesso pesanti, ma motivate da un unico imperativo: il bisogno di cambiare per poter rinascere.