La Stampa, 7 Marzo 2012
Per tutti quelli che da tempo si accalorano nel dire quanto inutile sia la nostra universita’, gli ultimi dati dell’indagine Almalaurea potrebbero sembrare una conferma delle loro opinioni. Aumenta infatti il tasso di disoccupazione a un anno dalla laurea, sia per coloro che escono dalla triennale (dal 16% al 19%) che per quelli che hanno intrapreso la specialistica (dal 18% al 20%). Mentre tra i laureati che invece lavorano aumenta il tasso di “precarietà” e diminuisce, in termini reali, il salario di ingresso.
E’ prevedible quindi che adesso riemergano interpretazioni che leggono in questi dati i sintomi dell’inutilita’ del titolo di studio,della cattiva qualita’ delle nostre universita’ o delle cattive abitudini dei nostri giovani, che cercano la laurea quando non e’ necessaria, o che si rifiutano di spostarsi o di fare lavori piu’ umili e via dicendo.
Questa lettura non solo e’ parziale e incompleta (perche’ comunque l’occupabilita’ e gli stipendi dei laureati restano complessivamente migliori che per gli altri) ma anche profondamente ipocrita, soprattutto quando a farla non sono accademici in vena autocritica, ma rappresentanti del mondo delle imprese, della politica e del lavoro. Infatti, nonostante le indubbie debolezze del nostro sistema universitario, non possiamo ignorare che l’Italia ha un sistema economico-produttivo che non ha mai compiuto fino in fondo quel processo di trasformazione e riqualificazione produttiva avvenuto in altri paesi, ed e’ in larga parte incapace di valorizzare e assorbire competenze, talenti e nuove tecnologie.
Questa incapacita’ la si coglie, per esempio, dalle previsioni di assunzione delle imprese raccolte ogni anno da Unioncamere, che mostrano un’incidenza della domanda di laureati del 12.5% su tutta la domanda di lavoro (contro il 31% degli Stati Uniti, per esempio). Ma la si coglie soprattutto osservando, piu’ in generale, la composizione dell’occupazione in Italia e il suo andamento nel tempo. Gli ultimi decenni hanno visto, in tutti i paesi industrializzati, un enorme cambiamento nella struttura occupazionale,con un progressivo svuotamento delle fasce operaie ed impiegatizie e un aumentodi tutte le occupazioni piu’ qualificate: tecnici specializzati, manager, imprenditori, professionisti (accompagnato anche da un parallelo aumentodelle occupazioni senza alcuna qualifica).
Un fenomeno legato all’avvento delle nuove tecnologie, alla crisi della vecchia industria e all’emergere di nuovi settori economici piu’ smaterializzati: informatica, nanotecnologie, telecomunicazioni e via dicendo, fino all’intrattenimento e ai videogames. L’aumento di queste occupazioni di fascia alta e’ stato consistente in tutti ipaesi industrializzati, ed il loro peso sulla forza lavoro e’ arrivato, in casi come Inghilterra e Olanda, a superare il 30% della forza lavoro, assorbendo e attraendo grandi dosi di “capitale umano”, ovvero laureati, specialisti e dottorandi.
Tutto questo in Italia non e’ avvenuto: la crescita delle occupazioni di fascia alta e’ stata abbastanza contenuta negli anni Novanta, e negli ultimi anni ha avuto un trend negativo che, come mostrano i dati Eurostat, l’ha riportata sotto il 18% dal 19% di qualche anno fa. Un calo moderato, ma che colpisce di fronte agli andamenti positivi di tutti i piu’grandi paesi europei.
E sulla mancata riqualificazione del sistema economico italiano i nostri politici, imprenditori, e sindacalisti non possono incolpare studenti e professori, ma devono assumersi le proprie, enormi responsabilita’. Perche’ sanno benissimo come in Italia per troppo tempo questo processo sia stato temuto e osteggiato dalla maggior parte delle forze sociali e politiche in campo. Ed e’ noto come ogni investimento in nuove tecnologie e ricerca sia stato visto spesso come accessorio, e come ogni industria che non fosse sufficientemente “pesante”, che non fosse “manifattura” sia stata considerata minore, o come ogni discussione sul ruolo dei servizi avanzati, delle industrie creative e culturali sia stato spesso derubricato come “fuffa”. Una fuffa che negli altri paesi non solo genera milioni di posti di lavoro qualificati, dando opportunita’ di crescita a tanti giovani laureati, ma che aiuta le stesse industrie tradizionali ad essere piu’efficienti, internazionalizzate e creative nel modo di riorganizzarsi e competere nei mercati internazionali. Recuperare il tempo perduto non sara’semplice.
E non si dica che il salto si potra’ fare aggiungendo nuovi e costosi incentivi: non serviranno. La situazione si cambia facendo dell’Italia un paese dinamico e competitivo, con un mercato del lavoro che supporta efficacemente le riorganizzazioni aziendali e le riqualificazioni dei lavoratori, che si apre agli investimenti stranieri, che cambia i criteri con cui da decenni si appaltano servizi nella pubblica amministrazione e con cui si distribuiscono sussidi, incentivi e protezioni varie alle imprese, e che introduca unaconcorrenza chiara e trasparente che dia la possibilita’ alle imprese davveropiu’ brave di competere e crescere. Perche’ la meritocrazia e la competenza di cui tanti amano parlare non si instaurano ne’ per decreto ne’ per incentivo, ma creando un sistema in cui diventino necessita’.