Su un punto Renzi ha ragione: le regole di cui si dotano gli uomini non sono intoccabili, possono essere cambiate. Anzi, in alcuni casi è auspicabile che lo siano alla luce dell’evoluzione del contesto o dei limiti che hanno mostrato. Dobbiamo ricordare però che le regole nascono per un motivo. E per quanto imperfette, ridicole o irragionevoli possano apparire, i motivi che hanno portato ad adottarle solitamente non lo sono.
Il Fiscal Compact nacque per avviare un percorso serio e credibile di consolidamento fiscale nei Paesi che a fine 2011 si trovarono in grave crisi finanziaria (incluso il nostro) e ristabilire all’interno dell’Unione quella fiducia necessaria per adottare una serie di azioni volte a ridare stabilità al sistema monetario europeo. Era evidente allora come adesso che non può esserci fiducia nè condivisione dei rischi se prima non c’è una riduzione di quegli stessi rischi da parte dei Paesi più esposti.
La prima domanda da porsi quindi è: cosa succede a quel delicato meccanismo di fiducia se facciamo saltare le regole che in un certo senso fungono da garanzia?
Possiamo dare per scontato che la fiducia verso di noi sia garantita dalle riforme avviate e dalla promessa di investire i soldi per la crescita, ma gli altri Paesi europei e i mercati possono avere dei dubbi. In questo momento l’Italia rappresenta una grande incognita politica per loro: dopo la bocciatura del Referendum del 4 Dicembre non sanno cosa accadrà nella prossima legislatura, quale governo potrà essere formato e se questo avrà la forza o la volontà di proseguire le Riforme e investire bene le risorse. Dal loro punto di vista togliere le briglie ad un Paese che tra pochi mesi potrebbe cadere in mano a governi anti-euro o trovarsi in una situazione di difficile governabilità rappresenta un elemento di grave rischio. E la prima vittima di tale incertezza sarebbe proprio l’Italia. Perchè se tornasse a salire lo spread, si mangerebbe subito quei miliardi ottenuti dall’allentamento delle regole. Insomma, in un momento di grande incertezza politica e con un debito pubblico altissimo, potrebbe essere un boomerang per l’Italia provare a sganciarsi dai meccanismi che servono a conservare una fiducia ottenuta con grandi sacrifici.
La seconda domanda da farsi è cosa accade all’insieme di regole, strumenti e progetti che sono nati grazie all’esistenza di questo meccanismo di riduzione dei rischi. In altre parole: il Fiscal Compact è nato come pre-requisito per una serie di passi successivi nel processo di integrazione europea. Se noi lo rinneghiamo come potremo continuare a chiedere maggiore condivisione di rischi e di costi, come potremo insistere sulla necessità degli “eurobond” o di un sussidio di disoccupazione europeo, o di una politica fiscale, migratoria o di difesa più condivise? E’ molto difficile essere credibili nel chiedere di arrivare alla seconda tappa di un percorso quando ci si rifiuta di passare dalla prima. Tra l’altro un tema importante che molti sembrano ignorare è che la ratifica del Fiscal Compact è condizione necessaria per poter accedere al meccanismo europeo di stabilità (ESM) ovvero al Fondo salva-Stati. Che succede se si sospende il Fiscal Compact? Considerato che l’Italia resta uno dei Paesi potenzialmente più interessati all’esistenza del meccanismo europeo di stabilità, è un aspetto da considerare.
Queste sono alcune delle criticità su cui riflettere se davvero vogliamo sganciarci dalle regole del Fiscal Compact. Che non vuol dire rinunciare all’idea, ma ragionare bene su come e quando farlo, per evitare che diventi un boomerang. Sul fronte del “come” è certamente utile, come ha proposto Calenda, accompagnare la richiesta di flessibilità con un “piano industriale” che indichi come vogliamo spendere i soldi. Ma è altrettanto utile costruire un consenso, farsi degli alleati. Non è una battaglia da fare in solitaria, ci ritroveremmo isolati e anche questo ci si ritorcerebbe contro. E costruire alleanze significa essere disposti a soluzioni di mediazione, magari trasformando la semplice idea del “veto” o della sospensione per cinque anni in una proposta di revisione di alcuni criteri del Fiscal Compact – che sarebbe più semplice da ottenere e ridurrebbe i rischi di reazioni negative da parte dei mercati. Dopotutto il Fiscal Compact è assai meno rigido di come venga dipinto e basterebbe rivedere il metodo di calcolo di alcuni parametri, come l’output gap (sulla cui revisione esiste già un certo consenso) oppure modificare alcuni criteri per la valutazione delle riforme, per ottenere ulteriori margini di flessibilità senza generare rotture o allarmi. Certo si tratta di un’azione più sofisticata su cui è più difficile costruire un dibattito e un consenso popolare, e questo può essere un problema (i tecnici spesso snobbano il consenso, scordando che è la base della democrazia). Ma se l’obiettivo è ottenere risultati per l’Italia e al tempo stesso difendere l’euro e l’integrazione europea, il sentiero è abbastanza stretto.