L’editoriale del 26 febbraio a firma del direttore Molinari apre una finestra sui progressi della robotica e dell’intelligenza artificiale e sulle loro implicazioni in un futuro non lontano, ma imminente.
Ma proprio questa imminenza, questa innovazione rapida e sorprendente, sta finendo per suscitare più paure che entusiasmi. Se persino un uomo di tecnologia come Bill Gates arriva ad ipotizzare una «tassa sui robot» per frenarne gli effetti disastrosi sui lavoratori, significa che siamo davvero di fronte a qualcosa su cui vale la pena riflettere.
La prima domanda da porsi è se davvero è necessario «frenare» l’innovazione, magari proprio con una tassa sulle innovazioni che distruggono lavoro (quindi non solo robot, perché dovremmo ricordare a Gates quanti milioni di posti di lavoro sono stati sostituiti da altre innovazioni, a partire dai computer, dai software e dalle piattaforme informatiche). Cosa accadrebbe, per esempio, se l’Italia inserisse una simile tassa nella prossima legge di bilancio? Accadrebbe molto probabilmente che le grandi aziende ricche di risorse e maggiormente sensibili ai guadagni di produttività, farebbero ugualmente quegli investimenti, magari spostando le produzioni più innovative e robotizzate nei Paesi che non le tassano o che addirittura le incentivano. Queste grandi aziende diventerebbero ancora più competitive, spazzando via tutte le piccole e medie aziende che pur avendo una buona capacità innovativa non reggerebbero la maggiore tassazione e non sarebbero in grado di modernizzarsi.
L’impatto occupazionale netto, per un paese dominato da piccole e medie aziende come il nostro, sarebbe probabilmente negativo e si acuirebbero le diseguaglianze che ogni nuova ondata di innovazione tecnologica inevitabilmente porta con sé. In altre parole: si finirebbe probabilmente per ottenere l’effetto opposto di quello desiderato. E qui entra in gioco la seconda domanda, ovvero se è possibile (e, se sì, come) provare a cavalcare quest’onda anziché frenarla.
La storia dell’innovazione ci insegna che le nuove tecnologie possono creare più lavoro e benessere di quanto ne distruggono a patto che nella società ci siano le condizioni per una loro ampia e pervasiva diffusione, per una maggiore e migliore distribuzione dei loro benefici. Questo significa due cose: avere una forza lavoro qualificata in grado di adeguarsi rapidamente alle nuove competenze richieste, e una offerta di prodotti e servizi nuovi sufficientemente sofisticata da rispondere in fretta alle nuove opportunità che vengono proposte. E’ grazie a questi due elementi che la rivoluzione dei computer e dell’informatica ha potuto portare negli Stati Uniti una straordinaria crescita economica e un aumento complessivo dei posti di lavoro nonostante la scomparsa di molte occupazioni. L’elemento chiave, dunque, è questo: non frenare l’adozione delle tecnologie, ma al contrario fare in modo che un numero sempre più ampio di persone, lavoratori ed imprese siano pronte a rispondere e ad accogliere queste trasformazioni. Per realizzare questo obiettivo serve l’impegno di tutti. Del settore privato – per far sì che gli extra profitti che nascono dalle innovazioni siano reinvestiti dalle imprese in nuova ricerca, ma anche in benessere e formazione dei lavoratori. E del settore pubblico, che deve cambiare radicalmente i propri sistemi di formazione e politiche attive per il lavoro, prima ancora che di welfare. Perché se pensiamo solo ai sussidi diamo una risposta alla disoccupazione, ma non aiutiamo l’innovazione a creare posti di lavoro.
Eppure di questo non parla quasi nessuno. Si parla solo di come aiutare i lavoratori dopo che perdono il lavoro: prepensionamenti, ammortizzatori, reddito di cittadinanza. Ma quando chiedi che tipi di nuove competenze servono ai lavoratori dei vari settori per adeguarsi e non perdere il lavoro, oppure per ritrovarlo, non ce n’è uno che sappia rispondere, né tra i politici ma neppure tra i sindacati o tra le associazioni di imprenditori. Certo, questa è la risposta più difficile, ma se non partiamo da lì, non resta che la paura.