di Irene Tinagli pubblicato su L’Avanti del 1 Maggio 2020
Mentre siamo tutti alle prese con la gestione dell’emergenza sanitaria ed economica di questo periodo, alcuni cominciano, giustamente, a chiedersi come sarà la nostra via “dopo”: in che modo cambieranno le nostre abitudini, la nostra società, la nostra economia? Si sta pian piano aprendo un dibattito su come potremmo già da ora immaginare e ridisegnare i paradigmi della nostra economia – correggendo errori del passato, ponendo le basi per uno sviluppo più sostenibile, in cui certi meccanismi della globalizzazione, dei mercati internazionali, delle nuove tecnologie siano meglio gestiti dalla politica e possano davvero essere a servizio dell’uomo e non viceversa.
E’ un dibattito affascinante e certamente utile. Ma dobbiamo fare attenzione che tra la gestione quotidiana dell’emergenza e il sogno di quel che potremo costruire nei prossimi anni non ci sfugga l’evoluzione di alcuni fenomeni che potrebbero avere conseguenze inattese nel giro di pochi mesi.
Su uno in particolare non sembra esserci ancora una sufficiente riflessione, ovvero sul sostanziale aumento dell’intervento pubblico nell’economia che vedremo presto in Europa. L’aver in pratica sospeso molte delle regole europee sugli aiuti di Stato ha dato semaforo verde a un massiccio intervento dei governi a sostegno delle loro economie nazionali. Un provvedimento che è stato salutato da tutti con grande entusiasmo, perché è evidente che oggi dobbiamo sostenere e difendere in ogni modo il sistema produttivo, le imprese, e, quindi, il lavoro e l’occupazione. Alcuni hanno anche pensato che questa possa essere l’opportunità per rivedere interamente il ruolo dello Stato e l’idea stessa di “economia di mercato” e i modelli di sviluppo perseguiti negli ultimi venti o trenta anni. Non è forse un caso se il giorno dopo l’allentamento delle regole si è proceduto alla nazionalizzazione di Alitalia, e in alcuni ambienti già si sente parlare di “nuova IRI”.
Ma forse prima di abbandonarci a nostalgie o entusiasmi conviene condurre un’analisi più approfondita. Non si tratta di ragionare sulla capacità di gestione da parte dell’azionista pubblico o delle conseguenze su produttività e competitività, ma su un altro, più rilevante aspetto. Gli aiuti di stato costano, tanto, e pesano sui bilanci dello Stato: oggi non tutti i Paesi possono permetterseli in egual maniera. Paesi con basso debito potranno indebitarsi per centinaia e centinaia di miliardi per salvare le loro imprese con prestiti, garanzie, aiuti a fondo perduto o anche con nazionalizzazioni, e non soltanto in settori considerati “strategici”. Altri Paesi, come il nostro, non potranno farlo. Non con la stessa potenza di fuoco.
Pochi giorni fa la banca pubblica tedesca KfW (equivalente della nostra Cassa Depositi e Prestiti) ha erogato un prestito da 2,4 miliardi di dollari ad Adidas. E certo Adidas non sarà l’unica beneficiaria dei massicci aiuti di Stato. La Germania ha un prodotto interno lordo che sfiora i quattro mila miliardi e un debito del 59%. Potrebbe aumentare il debito di 20-30 punti percentuali mantenendo il debito sostenibile e mettere sul tavolo cifre per noi inimmaginabili (e inarrivabili anche per altri Paesi europei). Questo creerà divari enormi all’interno dell’Unione.
Quindi, prima di cullarci nel disegno della nuova IRI, dobbiamo chiederci come pensiamo di prevenire o gestire questi nuovi divari che presto, molto presto, vedremo emergere non solo all’interno dell’Unione, ma anche tra l’Unione e il resto del mondo. Perché tutta l’Unione ne uscirà indebolita, e nessun Paese europeo, neanche il più ricco e il più forte, potrà pensare di superare da solo i rischi di un mercato unico che vacilla, di intere filiere produttive europee che collassano, di un mercato dei capitali più debole e frammentato. Questo è quello che purtroppo molti in Europa non sembrano aver colto fino in fondo.
Per questo adesso dobbiamo concentrare tutte le nostre energie – intellettuali, politiche e diplomatiche, per elaborare e sollecitare una risposta europea massiccia e ambiziosa, che non solo invochi la creazione di “fondo per la ricostruzione”, ma che proponga un grande balzo in avanti nel processo di integrazione europea, a partire dalle politiche economiche, fiscali e industriali. Possiamo certamente ripensare il ruolo e i rapporti tra pubblico e privato, ma dovremmo farlo quantomeno su scala europea. Non possiamo pensare di affrontare questa crisi semplicemente consentendo la ricreazione di piccoli monopoli pubblici o dando l’illusione che ogni Stato membro dell’Unione possa proteggere il proprio piccolo o grande campione nazionale mentre il resto del mercato europeo va in frantumi. Non possiamo pensarlo perché non accadrà: cadremo tutti se perseguiamo questa strada. Ma la buona notizia è che, se lavoriamo tutti insieme, possiamo uscirne con un’Unione dalle fondamenta più solide, più forte e competitiva.
Questa è la grande sfida di oggi. Questa è la battaglia che dobbiamo combattere, non in un ipotetico futuro, ma subito.