Per non parlare poi delle sue battaglie sull’importanza di investire in cultura e arte, in rinnovamento urbano, in diversità, immigrazione, diritti civili, e altre cose invise a molti economisti e politici più tradizionali. Perche’ dunque il primo ministro inglese Cameron ha deciso di convocare un personaggio così controverso e potenzialmente in conflitto con il suo elettorato? Perché, come ha scritto il ministro della Cultura inglese Jeremy Hunt in un articolo sul Times, «Florida descrive la vita com’è adesso, non com’era un tempo», e Cameron ha capito che se vuole davvero sviluppare la sua idea della Big Society in modo innovativo e accattivante deve innanzitutto essere capace di capirla questa grande società, di intravedere le forme che prende, i desideri che ha, i modi in cui può essere guidata, motivata, incoraggiata. E per fare questo deve mettere da parte ideologie o vecchi armamentari politici e confrontarsi con accademici, analisti, opinionisti internazionali, persone abituate a vedere e analizzare il mondo con una visione più ampia di quella del funzionario di partito o del proprio centro studi.
Questa sete di idee, di confronto, di elaborazioni intellettuali da tradurre poi in nuove proposte politiche è ciò che in passato ha caratterizzato molti leader di successo. L’idea di New Labor che cavalcò Tony Blair, per esempio, fu il frutto di un confronto profondo con intellettuali del calibro di Anthony Giddens, uno dei sociologi più noti del mondo. Così come la nuova idea di sogno americano lanciata da Obama nel 2008 (yes we can!) nacque da una serie di ricerche, analisi sulla mobilità sociale negli Stati Uniti, sui problemi emergenti della società americana. Ecco, questo à il potere delle idee, delle analisi genuine, e questa à la forza della politica quando à capace di far leva sulle migliori menti e valutazioni per capire i cambiamenti in atto e scommettere su qualcosa di nuovo, senza cavalcare paure contingenti, ideologie o nostalgie del passato, ma cercando di costruire il futuro, anche col rischio di fare errori. Purtroppo questo coraggio e questa energia à ciò che manca alla politica italiana.
Una politica che, per esempio, continua a fare retorica sulla nostra manifattura e su un’immagine del «Made in Italy» da dopoguerra, ignorando i dati che ci mostrano come in Italia ormai solo il 27% del valore aggiunto deriva dall’industria, un dato che ci avvicina a Paesi che noi consideriamo de-industrializzati da tempo come la Gran Bretagna (23,6%), così come ha lucidamente descritto in questo stesso giornale l’ex direttore dell’Economist Bill Emmott. E una politica che continua a incitare i giovani ad accettare lavori più umili, ignorando i dati dell’Ocse secondo cui l’Italia ha già uno dei tassi di «sottoimpiego» maggiori d’Europa e che quindi la nostra sfida non sarà abbassare le ambizioni dei ragazzi, ma alzare il livello delle opportunità. Ma ormai persino i dati vengono negati e delegittimati per paura di misurarsi con problemi nuovi e difficili. Questa paura e questa chiusura non fanno che allontanare la politica dalla realtà, dalla gente, impoveriscono il dibattito pubblico e la possibilità di un riscatto.
Certo, i dati e le analisi offrono solo spunti, idee, fotografie di una realtà in evoluzione, possono essere incompleti, richiedono interpretazioni, formulazione di ipotesi sul futuro e anche l’assunzione di rischi e possibili fallimenti. Tuttavia, finche’; mancherà questo coraggio, finche’ chi osa guardare oltre la siepe e immaginare un futuro diverso sarà temuto e marginalizzato, la politica non potrà mai rinnovarsi del tutto, emozionare, ne’ tanto meno aiutare questo Paese a rialzarsi.