E questo non lo si fa, come hanno fatto alcuni Paesi, immettendo miliardi di euro o dollari per salvare grandi gruppi, o per stimolare la costruzione di opere pubbliche e case (che andranno ad ingrossare la mole di appartamenti vuoti che già invadono città e periferie), o per incentivare l’acquisto di cucine e lavastoviglie. Misure di questo genere possono solo servire a evitare il tracollo del vecchio (e sulla loro efficacia esistono comunque molti dubbi), ma non certo a creare le basi per qualcosa di nuovo.
Il nuovo lo si costruisce pensando a ciò che deve crescere, formarsi, a ciò che sarà. Il nuovo lo costruiranno in larga parte le nuove generazioni, per questo oggi più che mai sarebbero necessarie politiche rivolte a loro. Nuovi modelli educativi, che insegnino davvero cosa significa essere oggi cittadini nel mondo, figli di una società aperta, informatizzata, dove il problema non à accumulare o memorizzare informazioni, ma essere capaci di analizzarle e ricombinarle in maniera critica. Nuovi modelli di formazione professionale che non inchiodino i ragazzi ad un mestiere che in passato durava 30 anni e oggi al massimo ne dura tre, ma che insegnino loro a gestire e sviluppare le proprie capacità in modo intelligente e flessibile.
Nuovi sistemi di lavoro e di welfare che non tutelino solo i padri, ma che aiutino i giovani ad affrontare la flessibilità senza che diventi una trappola, così come sistemi fiscali e finanziari che diano loro fiducia, pensando non a quanto possono essere spremuti oggi, ma a quanto potranno contribuire domani se aiutati a crescere. E sistemi amministrativi e burocratici internazionali che rendano facile la mobilità fisica, perche’ e’ ridicolo lamentarsi oggi della mobilità dei giovani talenti: sarebbero talenti miserabili se restassero ad ammuffire sempre nello stesso posto.
Il vero problema del «talento» oggi non e’ che e’ troppo mobile, ma che ancora non lo e’ abbastanza. Considerato quanto e’ stato investito, a livello internazionale, in infrastrutture, autostrade, aeroporti e in armonizzazione dei sistemi per far circolare le merci, e’ impressionante quanto poco sia stato fatto per facilitare la mobilità delle persone e dei lavoratori da un Paese all’altro, in modo da supportare una efficace e tempestiva «allocazione» del talento dove meglio può crescere e contribuire allo sviluppo senza essere sprecato.
La crisi poteva essere un’opportunità per rivedere tanti nostri vecchi modelli e tararli sul futuro. Per il momento invece la crisi e’ stata utilizzata semplicemente per giustificare tagli profondi (una misura che, per via del deficit, sarebbe stata necessaria a prescindere) se non addirittura per bloccare alcuni processi di riforma. Basta pensare a come la scorsa finanziaria abbia determinato, di fatto, il congelamento di parti rilevanti della riforma della pubblica amministrazione, o al recente blocco della riforma dell’università, o al continuo annuncio e rinvio della riforma dello statuto dei lavoratori, degli ammortizzatori sociali e così via.
E anziche’ mettere mano a una vera e importante riforma della formazione professionale che andasse nella direzione degli altri Paesi europei, dove si cerca di rafforzare il legame tra scuola e impresa, à stato abbassato l’obbligo scolastico e demandata ogni formazione alle imprese (che oggi, vale la pena ricordarlo, sono tra quelle in Europa che investono meno in formazione, persino quando si tratta dei ragazzi: solo il 20% dei giovani in apprendistato riceve qualche tipo di formazione).
Di fronte a questo scenario complessivo così desolante, anche le iniziative del nostro ministero per le Politiche Giovanili, dal Festival dei Giovani Talenti all’idea dei villaggi della gioventù, pur interessanti, sembrano assolutamente inadeguate e irrilevanti in una fase delicata come questa: quali talenti premieremo tra qualche anno se non ci preoccupiamo di formarli e dare loro un’opportunità di crescita, di lavoro, di realizzazione?