Dopo il mio ultimo post sulle battaglie europee in materia fiscale ho ricevuto alcune domande che meritano un approfondimento.
Da un lato chi mi chiede se non sia meglio “una sana competizione fiscale in Europa”, in modo da poter spingere la tassazione ad un ribasso anche da noi. Dall’altro lato chi, invece, mi chiede perché non fare un’armonizzazione vera e totale dei sistemi fiscali in UE.
Sono domande complesse ma importanti, proverò quindi a dare una risposta qua, più semplice possibile.
Iniziamo con il concetto di “sana competizione fiscale”. I presupposti di ogni tipo di “sana competizione” sono nelle condizioni di trasparenza, correttezza e regole che non consentano opportunismi ed arbitraggi.
Insomma: se si gioca una partita è giusto che il più bravo vinca, ma il campo di gioco, le regole del gioco, devono essere uguali per tutti, altrimenti non sarà il più bravo a vincere ma il più furbo. Ad oggi nell’Unione Europea, qualsiasi ragionamento su una sana competizione fiscale rimane esclusivamente sulla carta, infatti grazie a delle asimmetrie nel livello di integrazione delle politiche europee (per esempio c’è sempre più integrazione sul fronte del mercato e commercio, ma scarsa nelle politiche fiscali o sociali perché ad oggi i trattati hanno previsto un campo di azione molto limitato per la legislazione europea in merito) alcuni Paesi riescono, sfruttando tali asimmetrie, ad adottare politiche opportuniste che finiscono per creare una concorrenza sleale e danneggiare altri paesi europei.
Faccio un esempio pratico che, pur nella semplificazione, spero possa aiutare a capire il problema.
Ci sono alcuni Paesi europei molto estesi, popolosi, con strutture economiche complesse e forte peso manifatturiero (come Francia, Italia, Germania o Spagna), che per queste loro caratteristiche devono sostenere dei costi di infrastrutture, servizi e welfare molto superiori a quelli di altri Paesi. Costi che potrebbero essere coperti tramite fiscalità sfruttando i lati positivi dell’essere Paesi molto popolosi: ovvero sfruttando il fatto di essere mercati attrattivi per multinazionali che vogliono vendere ai loro cittadini – e quindi, operando in quel mercato, si presuppone che tali aziende pagheranno in quel Paese una serie di tasse necessarie a mantenere solido e florido quel mercato stesso.
Tuttavia, anche grazie all’ampia integrazione commerciale ed economica (ma non fiscale) a livello europeo, alcuni Paesi con minori spese o vincoli di bilancio hanno potuto sfruttare il mercato unico per attrarre fiscalmente aziende e multinazionali, promettendo loro regimi fiscali di favore e garantendo, essendo membri dell’UE, accesso a quasi mezzo miliardo di consumatori del mercato europeo.
Queste aziende decidono quindi di trasferirsi in questi Paesi non tanto e non solo perché sono “più bravi o efficienti” ma perché da lì possono comunque accedere a centinaia di milioni di consumatori degli altri Stati dell’Unione, sfruttando le loro infrastrutture, trasporti etc. senza però pagare tutto il dovuto per contribuire a sostenere quelle economie. E possono farlo perché, anche grazie a normative fiscali obsolete, riescono a “trasferire” i profitti dai Paesi dove li realizzano ai Paesi con una fiscalità di vantaggio dove pagano meno tasse. Pratiche agevolate dalla mancata armonizzazione delle regole per definire ad esempio una base imponibile comune per le multinazionali e dalla mancanza di norme per rendere obbligatoria la pubblicazione dei dati di fatturazione delle multinazionali “Paese per Paese”, così che è difficile per i cittadini risalire ai luoghi esatti dove i profitti sono effettivamente realizzati.
Non si tratta quindi di una competizione pura e “sana”, ma di una competizione alterata che penalizza chi non può ricorrere a tali pratiche (per es. piccole e medie imprese) e che toglie gettito ad alcuni Paesi. E anzichè stimolare un abbassamento generalizzato delle tasse (come farebbe una competizione “sana”), costringe i Paesi vittime di queste pratiche o ad alzare la pressione fiscale sui propri cittadini o a tagliare investimenti e servizi.
Per chiarire ulteriormente la natura di questa competizione: le pratiche attraverso cui questi Paesi attraggono le multinazionali non sono, banalmente, delle “aliquote fiscali” più basse dovute a gestioni pubbliche virtuose, ma pratiche più complesse, molto spesso sono accordi negoziati azienda per azienda (“Tax ruling”) in modo poco trasparente, a cui si somma la possibilità di “nascondere” o trasferire profitti da un Paese all’altro con più facilità e meno trasparenza informativa. Si tratta quindi di pratiche che, purtroppo, non hanno molto a che fare con l’idea teorica e un po’ romantica dei “Paesi così virtuosi nella gestione dei loro conti pubblici che possono permettersi di avere bassi livelli di tassazione per tutti”. Sono pratiche opache che avvantaggiano solo alcune grandi aziende. E questo sinceramente non lo trovo nè giusto nè sostenibile.