Anche se in Italia fino ad oggi nessuno ne ha parlato, quello della “indipendenza tecnologica” è e sarà uno dei temi più rilevanti per il futuro dell’Europa, che ha risvolti importanti sia sul fronte degli investimenti industriali e in ricerca, sia sul fronte del commercio internazionale. Infatti, nonostante molti considerino ancora il commercio come qualcosa che riguarda soltanto prodotti agricoli ed industriali, in realtà esso riguarda (e in maniera crescente) anche tecnologie e servizi assolutamente critici per lo sviluppo e la crescita di un Paese. Un tema su cui ho intenzione di lavorare nei prossimi mesi ed anni a Bruxelles. Di seguito un articolo molto ben fatto di Innocenzo Genna pubblicato su La Stampa del 23 Agosto.
Oltre il sovranismo: l’Europa alla ricerca dell’indipendenza (tecnologica)
La prossima Commissione europea, tutt’ora in corso di formazione, avrà sicuramente grandi temi di cui occuparsi: il lavoro, il clima, la coesione sociale, l’immigrazione e la Brexit per fare pochi esempi. Accanto a tanti argomenti così importanti ma già noti, è attesa però una new entry che meriterà particolare attenzione: la questione dell’indipendenza tecnologica. In altre parole, della capacità dell’Unione Europea e degli Stati membri di mantenere il controllo delle tecnologie che sono indispensabili per il proprio sviluppo, benessere e sicurezza.
La questione non è certo nuova. Da sempre la tecnologia è uno degli elementi-chiave per capire i rapporti di forza nella geopolitica. Storicamente si tratta però di tecnologie strettamente legate all’industria militare, alle infrastrutture essenziali ed alla lavorazione delle principali materie prime. Così, nel 1866 l’Italia perse la battaglia di Lissa perché la cantieristica nazionale non aveva gestito efficacemente la transizione verso le corazzate. I Francesi furono travolti nel 1940 perché non disponevano di un’efficace forza aerea che contrastasse gli Stuka tedeschi. La corsa al nucleare caratterizzò le relazioni internazionali durante la Guerra fredda, dal 1945 in poi. Ma nel nuovo millennio la leadership tecnologica è destinata a giocarsi soprattutto nel digitale, sebbene ora in un contesto più ampio, che oltrepassa l’industria pesante e bellica, ed abbraccia il sistema economico ed infrastrutturale nel suo complesso. Il digitale è infatti l’infrastruttura portante dell’intera moderna società, dalle comunicazioni ai pagamenti, dai servizi ai trasporti. Tutto passa per il digitale, che si tratti di reti elettroniche, server o computer, smartphone e telefoni.
Qual è il problema per l’Unione Europea ed i singoli stati membri? Nel settore digitale l’Europa non riesce ad esprimere operatori leader o player globali, e finisce con l’essere soprattutto un mercato per gli extra-europei. Le piattaforme digitali predominanti in Europa sono soprattutto americane e sono diventate degli intermediari essenziali per l’industria ed i servizi europei, estendendo la loro dominanza anche su mercati tradizionali e creando problemi fondamentali circa l’uso che fanno dei dati raccolti sui cittadini europei, il rispetto delle regole di concorrenza, l’adeguatezza delle tasse che pagano in Europa: tanto che il Commissario alla concorrenza Margaret Vestager sta pensando ora ad un super-portafoglio da Vicepresidente europeo focalizzato proprio sui grandi operatori online.
Ma il problema non sono soli i servizi, bensì anche e soprattutto le infrastrutture, ma quali? La classe politica europea è tradizionalmente sensibile all’assetto proprietario dell’operatore telecom tradizionale, che sia TIM, Deutsche Telekom, Orange, ma dimentica che oramai il grande business ed i servizi “girano” attraverso il cloud computing, un settore dove l’industria europea è purtroppo una pallida comprimaria rispetto agli stranieri: infatti in Europea il cloud è dominato dall’industria USA, che sia Amazon, Microsoft, Google ed IBM, mentre a livello globale emergono anche gli operatori cinesi. In altre parole, servizi ed informazioni europee sono elaborate e trattate da macchine e tecnologie controllate da stranieri, e questo vale anche per le attività delle istituzioni, europee e nazionali. Il governo cinese o americano accetterebbero di utilizzare infrastrutture straniere per custodire ed elaborare i propri dati? Non penso proprio. Ma è proprio questo che avviene a Bruxelles e nelle principali capitali europee.
Il discorso si è recentemente infiammato con il tema del 5G, dove gli americani hanno reagito al tremendo (ed inaspettato) ritardo della loro industria hi-tech scatenando una spettacolare guerra commerciale contro i cinesi, colpevoli, in fin dei conti, di essere più avanti di tutti in questo settore. I cinesi sono accusati di utilizzare il 5G come una sorta di cavallo di Troia al fine di spiare ed influenzare gli Stati acquirenti. Ma se anche fosse vero, sarebbe forse la prima volta che un governo utilizza l’esportazione di tecnologie per fini geopolitici? Non proprio, se si pensa ai più recenti casi di spionaggio sofferti dagli europei. Per fortuna, nel 5G l’industria europea (Ericsson e Nokia) è meno in ritardo di quella americana, ma il tema della leadership tecnologica resta sensibile, non importa se si tratti di rincorrere Cina o altri ancora. Gli operatori mobili europei stimano che rinunciare ad Huawei per le loro reti 5G comporterebbe dei forti ritardi nello sviluppo di tali reti. Bisognerebbe allora privilegiare la rapidità nel lancio dei nuovi servizi 5G, oppure attendere per assicurarsi l’instaurazione di regole di sicurezza?
Il tema del 5G ha dato luogo ad una vera e propria caccia alle streghe. In verità, il 5G è un insieme di tecnologie completamente nuove e consiste, sostanzialmente, di software più che di macchinari. La capacità di spiare dipende da come è scritto il software, più che dalla configurazione delle macchine. Pertanto, data l’immaturità di questa tecnologia, è difficile capire se le vulnerabilità che permetterebbero di “spiare” gli utilizzatori europei costituiscano delle imperfezioni, dovute a degli errori dei programmatori, oppure delle backdoor intenzionali e maliziose. Ed infatti fino ad ora i sospetti americani nei confronti di Huawei hanno permesso di creare uno scenario plausibile, ma senza alcuna prova di colpevolezza.
Fatto sta che la guerra commerciale scatenata da Trump contro Huawei ha avuto almeno il merito di far aprire gli occhi agli europei: quando Trump ha dato l’ordine a Google e ad altri operatori di non rifornire più Huawei di servizi e tecnologie essenziali, qualche cancelleria europea ha avuto un soprassalto. Oggi tocca ai cinesi, ma se toccasse un giorno a noi europei? Immaginiamo che le guerre commerciali tra gli USA e l’Unione Europea segnino ulteriori ribassi e venisse dato l’ordine di non fornire più agli europei determinati componenti o software. Non solo l’industria ma anche le istituzioni nazionali ed europee andrebbero in tilt. Il tema tecnologico assume ora una connotazione ulteriore, quella appunto dell’indipendenza: non si tratta semplicemente di primeggiare in qualche settore, ma di essere in grado di sviluppare quell’autonomia tecnologica che consenta di resistere e superare embarghi o restrizioni derivanti da avverse decisioni unilaterali. Ovviamente non si tratterà mai di un’autarchia tecnologica, impossibile da raggiungere per l’Europa, ma della capacità di contare abbastanza tanto da poter disporre di ragionevoli alternative tecnologiche.
Ma per essere indipendenti tecnologicamente bisognerà recuperare, almeno in parte, il gap accumulato verso Usa e Cina. Come fare ora che i mercati-chiave sono dominati da giganti online di altri paesi? Piuttosto che recriminare su sbagli e ritardi dei paesi Europei, si tratta di capire come trattenere l’eccellenza in casa. Perché i nostri migliori cervelli vanno a lavorare in California piuttosto che rimanere in Europa? Perché le start-up europee fanno a gara per farsi comprare da un americano? Ma soprattutto: è un problema di capitali, di imprenditorialità, o anche di regole? L’Unione Europea non fa politica industriale come i suoi Stati membri, ma potrebbe suggerire delle regole adeguate per recuperare il ritardo tecnologico. Ecco alcuni esempi pratici:
- l’interoperabilità tra le piattaforme: i grandi giganti online sono tali perché sono dei sistemi chiusi. Google non ha rivali nel suo campo, come Facebook, Amazon ed Apple rispettivamente, perché non vi è un mercato significativo al di fuori dei rispettivi ecosistemi. L’obbligo di interoperabilità, laddove tecnicamente possibile, permetterebbe alle piccole imprese di operare anche nei mercati occupati da tali giganti. Per fare un esempio, con l’interoperabilità una start-up europea di messaggistica potrebbe consentire ai propri utenti di comunicare con quelli di Whatsapp; senza l’interoperabilità, invece, nessuno avrebbe interesse ad utilizzare il servizio della start-up europea, perché quasi tutti gli utenti con cui connettersi sono su Whatsapp;
- l’open source: i giganti online basano la loro forza su sistemi totalmente o parzialmente proprietari, difficili da replicare a causa degli alti investimenti richiesti. Con il software open source è invece possibile sviluppare degli ambienti tecnologici attraverso la cooperazione di community e la condivisione del software, applicando in sostanza il motto “l’unione fa la forza”, l’ideale cioè per le start-up europee che altrimenti non disporrebbero delle risorse per replicare gli investimenti dei giganti online;
- una politica antitrust innovativa: occorre impedire che le migliori start-up europee finiscano il loro percorso con l’essere ineluttabilmente comprate da stranieri. Per porre fine a questo continuo depauperamento, la politica antitrust dovrebbe essere più previdente e lungimirante. Inoltre, dovrebbero esistere strumenti di venture capital che permettano alle start-up europee di crescere in casa nostra. Non dimentichiamo che molti giganti online americani devono il loro successo a cervelli ed imprese europee da loro acquisiti;
- una politica degli appalti orientata agli operatori europei. In tempi di “America First”, forse non sarebbe male cominciare a pensare di dare qualche priorità alle aziende europee. Talvolta i committenti pubblici europei ignorano le start-up europee perché considerate meno sicure, al grido rassicurante di “Nessuno è mai stato licenziato per aver ordinato IBM o Microsoft”. Al contrario, riservare una parte degli appalti pubblici europei e nazionali a start-up nostrane permetterebbe a tali imprese di farsi conoscere ed assumere quella notorietà che solo manca loro per competere con i colossi extraeuropei. Ma ci vorrà più impegno da parte dei committenti pubblici europei.
Innocenzo Genna
Esperto di regolamentazione europea del digitale
Twitter: @InnoGenna