«Vedo nella formazione del governo Draghi soprattutto la volontà di spoliticizzare il Recovery Plan, metterlo al riparo dalle diatribe politiche, e rafforzarne la solidità tecnica». Irene Tinagli, presidente Pd della commissione per i problemi economici e monetari del Parlamento europeo, accetta di parlare del Recovery Plan il giorno dopo la formazione del governo Draghi a Roma e l’approvazione definitiva a Bruxelles del regolamento Ue sul Recovery «che apre la fase della presentazione formale dei Piani nazionali, da qui fino al 30 aprile». Coincidenza temporale che sembra confermare – se ce ne fosse bisogno – che è questa una delle priorità del nuovo esecutivo italiano. «Non so se il presidente Draghi vorrà riformulare o solo integrare la versione attuale del Piano – dice Tinagli – ma mi sembra che il problema non sia tanto la ripartizione delle risorse fra le priorità programmatiche, transizione ambientale, digitalizzazione e infrastrutture, che rispondono alle richieste dell’Europa, quanto nelle riforme di accompagnamento che in alcuni casi sono appena accennate e nella mancanza dei dettagli operativi che per l’Europa sono molto rilevanti, soprattutto per l’approvazione del piano da parte della commissione. Bisogna spiegare con quali percorsi, con quali obiettivi temporali, con quali risultati attesi si avviano gli interventi del Piano e come si collegano agli obiettivi fissati».
Presidente Tinagli, che significa volontà di spoliticizzare il Piano?
Ricordo anzitutto che sulla eccessiva politicizzazione del Piano è caduto il governo precedente. Le lotte politiche non hanno aiutato a centrare le questioni rilevanti che per Bruxelles sono soprattutto quelle legate all’efficienza del piano, al suo impatto sulla crescita. Una crescita che non deve essere episodica. Al contrario, l’Unione europea chiede di innescare meccanismi di crescita duraturi. E l’Italia, che parte già da una situazione di ridotta competitività, ne ha bisogno più di altri Paesi.
La rassicura la compagine di governo?
Mi pare che i nuovi ministri che avranno un ruolo chiave nel piano, da Franco a Giovannini, da Colao a Cingolani, siano persone di grande competenza ma anche non sprovvedute nei rapporti con la politica e con la macchina amministrativa. E la componente politica mi sembra abbia una capacità di dialogo che fa ben sperare. Starà a loro soprattutto, oltre che al presidente Draghi, dare al piano quella solidità tecnica e quello spirito unitario che fino ad oggi hanno faticato ad emergere.
Quali sono i pericoli che arrivano per il Piano italiano dal regolamento che avete approvato? Il rischio di una revoca dei fondi in caso di violazione del Patto di stabilità?
No, francamente, non mi sembra che il pericolo principale venga dall’articolo sulla “buona governance economica”. Quella è una regola in vigore da anniche riguarda tutti i principali piani di spesa, anche nel bilancio ordinario. È una procedura molto complessa, che finora non è stata mairealmente implementata. Mi pare piuttosto che per l’Italia il rischio principale venga dai tempi di attuazione del piano: impegni da assumere entro il 2023, erogazioni entro fine 2026. Tempi molto stretti per la mole di fondi che intendiamo utilizzare. Il rischio di non riuscire ad investirli tutti nei tempi dovuti è molto serio, anche perché, dopo l’anticipo che verrà erogato all’approvazione del Piano per una somma che noi abbiamo innalzato al 13% del contributo totale, le successive erogazioni arriveranno sulla base degli stati di avanzamento degli interventi.
Diventa fondamentale, quindi, una buona governance e una semplificazione delle procedure amministrative.
Sulla governance vediamo che soluzione sarà adottata, ma vale già quello che dicevo prima sulla composizione del governo.Mettere questo tema al riparo da lotte politiche sarebbe già un buon risultato.. L’adozione di procedure semplificate rispetto a quelle ordinarie mi pare un altro passaggio inevitabile. Anche perché dobbiamo dimostrare alla commissione di essere credibili. Dobbiamo corredare il piano di una serie di garanzie anzitutto sui percorsi. Come faremo in modo che il primo ricorso al Tar non blocchi tutto? Come assicuriamo che i bandi di gara siano svolti correttamente, che non ci saranno infiltrazioni, che i costi siano corretti?
Ecco la terza area di rischio. Lei dice: le macrocondizionalità non sono un rischio, mentre lo sono i tempi di attuazione del piano. E l’esame per l’approvazione del piano da parte della commssione, che faremo ad aprile, con il lungo elenco di criteri di valutazione che il regolamento prevede, è un rischio?
Torniamo al punto iniziale. I dettagli operativi di cui oggi il piano è privo non sono un fatto secondario. Nei mesi scorsi da Bruxelles, abbiamo battuto molto sul fatto che si stava sottovalutando questa parte nel dibattito politico italiano. Dobbiamo scrivere che impatto hanno le misure sul Pil, sull’occupazione, sugli indicatori climatici.
Intervento per intervento, anno per anno?
Alla commissione interessa sapere che impatto produrrà il piano una volta realizzato, declinandolo su molte dimensioni: occupazione, coesione, potenziale di crescita, e confrontato con la cosiddetta “baseline”. Sul raggiungimento di obiettivi ambientali e digitali, poi, servono dati dettagliati per intervento. Oggi gli impatti del piano mi sembrano indicati in modo troppo aggregato. Questo è un aspetto. Diverso è invece spiegare, e anche questo va fatto, in quanto tempo contiamo di realizzare i singoli interventi. L’importante è riuscire a essere credibili su entrambi i fronti.
(Intervista realizzata da Giorgio Santilli)