Le tante storie di giovani che sfruttano la rete per realizzare delle idee imprenditoriali e per trovare un po’ di gratificazione personale e economica non possono che mettere di buonumore.
Uno spiraglio di ottimismo contro tutti quelli che dicono che alla crisi non c’e’ scampo, e contro tutti quelli che dicono che i giovani di oggi sono pigri e incapaci di arrangiarsi. Ma al di là dell’istintiva simpatia questo fenomeno lascia trasparire una serie di elementi che dovrebbero stimolare una riflessione più approfondita soprattutto da parte dei nostri policy makers.
Il fenomeno dei wwworkers ci dice che tra i giovani c’e’ voglia di imprenditorialità, voglia di mettersi in gioco, e che questi ragazzi hanno idee, curiosità, che sanno usare le tecnologie non solo per chattare ma anche per tirarci fuori qualcosa di utile. Però ci dice anche che l’orizzonte di queste iniziative e’ molto limitato e che l’impatto che esse possono avere sulla struttura o il futuro dell’economia italiana sarà probabilmente di scarsa rilevanza. Si tratta per lo più di minibusiness che usano tecnologia e innovazioni, ma che non ne producono. In altre parole: non siamo di fronte alle famose storie di ragazzi che nel garage di casa sviluppavano nuovi software, sistemi operativi o motori di ricerca. Siamo di fronte a persone che usano una piattaforma Internet per vendere forme di pecorino o fissare appuntamenti per portare a spasso i cani dei vicini. Sono due cose molto diverse. Nel primo caso, c’e’ il potenziale per creare imperi economici che generano migliaia di posti di lavoro e che spostano di qualche metro le frontiere tecnologiche mondiali. Nel secondo caso, se va tutto bene, si creano le basi di un buon business familiare, che certo non e’ poco, ma che non darà all’economia e alla società del Paese quel contributo che hanno dato i giovani fondatori di Google, Facebook, Skype e simili.
Questo non significa che in Italia non ci siano giovani in grado di inventare una nuova tecnologia che possa cambiare il mondo, o di mettere in piedi un business innovativo o di creare un prodotto di respiro internazionale. Significa solo che i giovani che potrebbero o vorrebbero cimentarsi con queste imprese non vedono davanti a loro la possibilità di farlo. Non vedono interlocutori, non vedono intermediari, o forse semplicemente non hanno le informazioni e la formazione necessaria e non sanno come fare. Vedono solo muri, burocrazia e costi altissimi anche per muovere i primi passi. Meglio allora ridimensionare le ambizioni, saltare intermediari, banche e finanziatori e affidarsi alla rete. Meno promettente, ma più veloce, economica, senza bisogno di troppi permessi e carte bollate: se va va, se non va si cambia rotta subito. Questa à in molti casi la realtà italiana: ogni volta che un progetto importante richiederebbe il coinvolgimento di banche, pubblica amministrazione e di determinate «condizioni di sistema» si preferisce ridimensionare le ambizioni e ci si arrangia da soli. Ed e’ un vero peccato. Perche’ si potrebbe convogliare tutta questa energia, curiosità e voglia di fare in attività imprenditoriali più strutturate, con maggiori potenziali di crescita. Si potrebbero aiutare i giovani che abbiano questo desiderio di mettersi in gioco ad imparare come davvero si mette in piedi un’impresa a 360 gradi, così come ha fatto quella generazione di imprenditori che ha reso grande l’Italia. Una generazione che oggi, forse scoraggiata dalla crisi e da un sistema politico inerme, appare un po’ chiusa in se stessa e incapace di rigenerarsi per aprire una nuova stagione di prosperità, innovazione e ottimismo. E d’altronde à difficile pensare che il nuovo made in Italy sia rappresentato da un sito che vende prosciutti o cappellini fatti in casa. Questi ragazzi sono bravi, coraggiosi e ingegnosi, ma i loro piccoli o grandi successi personali, che ci auspichiamo sempre più gratificanti, non fanno che mettere a nudo un fallimento collettivo.
Se vuoi leggere l’articolo direttamente dal sito de ”La Stampa”,clicca qui!