La crisi finanziaria non ha soltanto spazzato via aziende, negozi e banche, ma ha anche cambiato la nostra visione dell’economia, cambiando le priorità, le scelte di investimento e di politica economica. Prima della crisi le parole d’ordine erano talento, merito, innovazione e creatività. Con la crisi, inevitabilmente, queste parole sono state messe da parte, considerate un lusso che non ci si poteva permettere in periodi di vacche magre. Eppure, un’analisi più attenta delle dinamiche di sviluppo economico locale ci mostra che le città più “creative” sono quelle che hanno sofferto meno durante la crisi o che, comunque, si sono riprese prima e meglio.
Analisi condotte da ricercatori dell’Università di Toronto e di Los Angeles su centinaia di aree metropolitane negli Stati Uniti negli anni dal 2007 al 2011 hanno mostrato che le città con elevate concentrazioni di “classe creativa” e con una economia molto forte nei settori a più alta intensità di creatività (imprenditoria diffusa ma anche professioni intellettuali, finanza, marketing, arte e cultura, design, informatica) sono anche le città che hanno più rapidamente recuperato terreno, quelle in cui il valore degli immobili si è ripreso per primo, e che per prime sono tornate ad attrarre talenti ed investimenti.Al contrario, le città industriali e manifatturiere, o quelle incentrate sui servizi a bassa intensità di innovazione e creatività – come Las Vegas o numerose zone della Florida che per anni sono cresciute solo grazie al turismo o all’attrazione di facoltosi pensionati, sono state quelle più devastate dalla crisi finanziaria e quelle che hanno fatto più fatica a rialzarsi.
Non è un caso se le due capitali mondiali della finanza, New York e Londra, che avrebbero dovuto essere annientate per decenni dalla grave crisi finanziaria del 2008, sono state in realtà tra le prime a riprendersi. Perchè la concentrazione di talento e creatività rende queste città più resilienti, più capaci di reagire, riconvertirsi e ripartire.
Insomma, chi pensa che argomenti come la creatività e la capacità innovativa di una città e di un territorio siano temi residuali, un “di più” su cui investire solo quando avanza qualche risorsa non ha capito nè cosa sia davvero il ruolo della creatività nei processi di sviluppo economico nè quali siano le condizioni necessarie per trasformare la creatività in motore di sviluppo.
Una città non è creativa quando apre un museo o organizza un concerto. Una città, un territorio sono “creativi” quando offrono l’opportunità di sviluppare e incontrare delle idee nuove e trasformarle in qualcosa che ha un valore: nuovi prodotti, nuovi processi, nuove imprese. E questa capacità di produzione e realizzazione è legata al contesto sociale, demografico, culturale, tecnologico, imprenditoriale, amministrativo – tutti aspetti su cui le città si differenziano moltissimo. Chi ha avuto modo di vivere e lavorare in città e paesi diversi lo sa bene: ci sono città in cui è più facile imparare e conoscere cose diverse, che stimolano la nostra immaginazione, la nostra creatività, e che ci rendono accessibili le condizioni per realizzarle e altre città in cui tutto sembra immobile e ogni idea appare semplicemente irrealizzabile.
Come si costruiscono queste condizioni favorevoli alla realizzazione di nuove idee in un territorio? Con politiche lungimiranti e costanti nel tempo, capaci di coltivare ed integrare la diversità economica e sociale (la creatività è ricombinazione di idee ed è più difficile che nasca in contesti omogenei), di investire con costanza in cultura, ricerca ed innovazione, e anche con politiche che si preoccupino di far funzionare quelle infrastrutture essenziali per la realizzazione delle idee, a partire da una macchina amministrativa snella, telecomunicazioni funzionanti, servizi di supporto efficienti e accessibili.
Per sintetizzare potremmo usare le parole del professor Richard Florida che alcuni anni fa divenne famoso sostenendo che per fare un’economia creativa servono tre T: tecnologia (le “infrastrutture abilitanti”), talento (l’istruzione e la creatività umana) e la tolleranza (la diversità sociale fondamentale per quella contaminazione che fa nascere nuove idee).
A ben vedere l’eredità più problematica che ci lasciano gli anni di recessione non è tanto la sottovalutazione del ruolo della creatività nei processi di sviluppo, quanto la distruzione delle sue basi fondanti. La crisi ci lascia infatti una diffusa e crescente paura della tecnologia, del nuovo e di tutto ciò che è diverso, rendendoci più chiusi e meno tolleranti. Basta pensare alle crescenti pressioni protezioniste e nazionaliste che attraversano tutto il mondo occidentale. Da questo punto di vista il primo grande passo per riscoprire e ridare fiato alla creatività e all’economia creativa sarà trovare la forza per superare queste paure e riabbracciare il gusto del nuovo, la curiosità del diverso, la voglia di esplorare e di aprirsi al mondo.