Continua a crescere l’interesse verso lo Smartwork e la proposta sul telelavoro che ho presentato insieme ad Alessia Mosca (Pd) e Barbara Saltamartini (Ncd) per introdurre nuove modalità di lavoro, che diano la possibilità di lavorare anche in remoto e con orari più flessibili utilizzando gli strumenti offerti dalle nuove tecnologie.
Dopo gli articoli del Corriere e di Repubblica dedicati allo smart working, oggi anche La Stampa ha pubblicato un articolo con una mia intervista:
Niente ufficio, né orari. Il lavoro è smart
Timbrare il cartellino ogni volta che si entra o si esce dall’ufficio? Una consuetudine, quasi un piccolo rito quotidiano. Ma chissà che un giorno non diventi una cosa d’altri tempi. La ragione si potrebbe sintetizzare in due parole: «smart working». Tradotto: lavoro intelligente. O meglio, agile.
Perché sfrutta e combina le nuove tecnologie per rendere le nostre attività meno legate agli spazi dell’ufficio. Telelavoro? Non solo. L’idea è consentire ai dipendenti di svolgere la loro professione – o almeno una parte – in qualunque luogo si trovino. Dal bar alla sala d’attesa del medico. All’interno di questa definizione generale rientrano anche la flessibilità oraria, un ripensamento degli spazi fisici comuni, l’impiego di nuovi sistemi di comunicazione tra colleghi e la condivisione di dati e altre informazioni in modalità «cloud», ai quali gli utenti possano accedere attraverso strumenti diversi.
Eccolo qui il futuro. Un’organizzazione del lavoro nuova ma che – ha dimostrato una ricerca del Politecnico di Milano – le aziende italiane fanno ancora fatica ad adottare. Un peccato per la platea degli addetti potenzialmente interessati, consapevoli dei benefici che l’impiego di tali soluzioni potrebbe avere sulle loro vite. «Il problema è il dove. Oggi tanti lavorano in open space caotici, in cui non si riesce nemmeno a fare una telefonata in pace. Tutto questo incide negativamente sulla produttività e sul benessere del dipendente che, a differenza del freelance, spesso non ha la possibilità di scegliere di lavorare da casa», osserva Mariano Corso, responsabile scientifico dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico.
Proprio per andare incontro a queste esigenze, è stata presentata alla Camera una proposta di legge sottoscritta da Irene Tinagli (Scelta Civica), Alessia Mosca (Pd) e Barbara Saltamartini (Ncd): un’alleanza trasversale in nome dello «smart working», strumento pensato per incrementare la produttività e rendere più semplice la vita. Nel testo si precisa, per esempio, che chi opta per il lavoro agile ha diritto di ricevere un trattamento economico e normativo uguale e quello degli altri dipendenti a parità di mansioni svolte. «Non è che, dall’oggi al domani, ogni attività si potrà svolgere da casa. È naturale che alcune fasi del lavoro abbiano come fulcro l’ufficio e il faccia a faccia. Ma, in altri momenti, questa esigenza può anche venire meno. Dipende dal periodo dell’anno e dal momento della giornata», puntualizza Tinagli.
E aggiunge: «Ciò che vogliamo è una maggiore flessibilità, contrapposta a una visione ancora rigida del lavoro. Un aiuto viene dalle nuove tecnologie. Strumenti che non solo ci premettono di comunicare più velocemente e che possono incidere in maniera significativa in questa rivoluzione».
I vantaggi sarebbero notevoli anche per le aziende stesse. Lo studio del «Poli» di Milano racconta che l’adozione di un modello lavorativo «smart» permetterebbe alle imprese italiane di aumentare i profitti di 27 miliardi in un anno, frutto di un incremento medio della produttività attorno al 6%. Non basta.
A questo andrebbero aggiunti anche 10 miliardi di risparmio in costi: dalle spese per gli spazi – la stessa postazione può essere assegnata a più dipendenti perché quando uno non lavora in ufficio c’è un’altra persona – a quelle delle trasferte, viaggi talvolta evitabili e che possono essere sostituiti con videoconferenze.
Basterà questa proposta di legge a rendere l’Italia un Paese «intelligente» dal punto di vista lavorativo? «Purtroppo no – risponde Corso -. Il problema è culturale. Far capire ai capi che chi lavora da fuori non è meno produttivo di chi passa la giornata alla scrivania è un problema. Così, se anche le aziende mettono a disposizione misure “smart”, alla fine chi ne beneficia è una minoranza. E di solito si tratta di dipendenti che non hanno più ambizione a fare carriera».