di Pierluigi Battista
Certo, e’ solo un pallone. Ma il pallone tricolore e’ sgonfio, esausto, sfibrato. Sembra l’Italia. Infatti e’ l’Italia: giovanilista a parole, nella pratica spaventosamente gerontocratica e aggrappata alle rendite di posizione acquisite con l’età. E i giovani veri? Nella Nazionale e nella Nazione, fuori. Esclusi. Vezzeggiati, ma messi ai margini.
Il talento irregolare o sregolato, poco gestibile, fonte di guai e di disordine, resta a casa.
Le connessioni tra il calcio e lo stato di salute di una società sono labili e talvolta arbitrarie. In fondo non e’ che in quattro anni sia cambiato tutto e che quando l’Italia trionfava qui c’era il paradiso. Però appare mascoscopicamente evidente che se quella di Lippi non e’ una Nazionale per giovani e’ perche’ questo non e’ un Paese per giovani. I «vecchi» parlano giovane, vestono giovane, cliccano giovane, vogliono avere lo stile disinibito e friendly dei giovani, ma esercitano una prepotente dittatura dell’anagrafe. Nella politica i giovani che emergono grazie a un sano e robusto combattimento con l’establishment sono una rarità: Matteo Renzi, e chi altro? I più si fanno cooptare, diventano mestieranti della gioventù, giovani a vita, lagnosi e queruli. Nel Pdl si chiede prima di tutto una bella voce, per poter intonare con solennità «Meno male che Silvio c’e’». Nel Pd i giovani sono la parodia del burocrate di belle speranze, ciascuno a occupare la casella nella direzione del partito per conto del maggiorente (anziano) di riferimento. Le belle donne giovani, poi, sono oggetto di una duplice diffidenza: perche’; giovani e perche’ belle e dunque il ministro Mariastella Gelmini, per dimostrare quello che à, abbastanza brava, deve faticare il doppio per rimuovere il pregiudizio. Giovani e vecchi, inoltre, sono categorie molto elastiche: all’età in cui in Inghilterra e Spagna Blair e Aznar lasciano la guida del governo, qui in Italia si à considerati ancora giovani promesse, politici da svezzare, ancora immaturi per la grande prova.
Ma la guerra ingaggiata dai vecchi contro i giovani non impegna solo la politica e la Nazionale di calcio. Il clan dei «giovani scrittori» ha già abbondantemente superato la soglia anagrafica in cui, come ha ricordato Filippo La Porta sul Corriere, Tolstoj era alle prese con «Guerra e pace» e Flaubert con «Madame Bovary ». Perche’ troppo famosi (Roberto Saviano) o perche’ considerati precoci candidati allo Strega (Paolo Giordano e, ora, Silvia Avallone), i giovani scrittori «veri» devono scavalcare muri di diffidenza, se non di ostilità. Nei giornali, le porte sono sbarrate: sotto i trent’anni sono rarissimi i giovani assunti con una certa stabilità nella carta stampata, ma anche in televisione. Devono attrezzarsi a decenni di precariato e gavetta: i più talentuosi sono confinati nei giornali più piccoli perche’ costano meno. Altrimenti devono conformarsi, adeguarsi, evitare di fare innervosire i più anziani che li guardano con accondiscendenza. E’ così diverso da ciò che e’ accaduto nella Nazionale italiana?
I giovani hanno difficoltà ad aprire un’impresa, sono soffocati dalle pratiche burocratiche, dai tempi mostruosamente dilatati dei permessi e delle licenze. Bene, il ministro Tremonti promette che i lacci asfissianti vanno sciolti, che le catene saranno allentate. Ma per mantenere la promessa occorre modificare l’ultima parte dell’articolo 41 della Costituzione e in Italia, si sa, per cambiare la Costituzione ci vuole un tempo sufficiente a far diventare i giovani degli ex: ex giovani, naturalmente. Poi c’à il blocco del turnover nella scuola: e se mai si dovesse trovare un giovane scosso dalla passione dell’insegnamento, sarebbe meglio consigliargli di dirottare le proprie passioni altrove, perche’ prima bisogna smaltire generazioni di insegnanti corazzati con i loro diritti acquisiti (ma in compenso molto mal pagati). Poi c’à l’Università, dove per il giovane qualche speranza c’e’: purche’ provvisto di adeguato cognome. E poi la ricerca, dove accade esattamente il contrario di ciò che avviene nei club calcistici: questi si riempiono di stranieri anche molto onerosi, ma nemmeno uno straniero sbarca in Italia per fare ricerca nei nostri laboratori, nelle nostre aule. Nel calcio professionistico l’Italia e’ un Paese per stranieri, nella ricerca no: i cervelli giovani, se possono, se hanno un’opportunità, fuggono altrove.
E nell’arte, nel cinema, nella musica? Difficile affermarsi come giovani artisti quando gli avanguardisti di tutte le stagioni hanno messo su pancetta e calvizie. Oggi un giovane regista come Nanni Moretti, invece di girare in super8 il suo giovanilissimo «Io sono un autarchico», sarà costretto a fare anticamera ministeriale per sperare in qualche finanziamento elargito dall’apposita commissione erogatrice di assistenza. Un Paese così e’ destinato a impantanarsi, a sprecare energie, a dilapidare risorse e talenti. Preferisce la routine dell’oligarchia gerontocratica che non si schioda e che ha paura di tutto, persino delle folate offensive di una Slovacchia. E lascia in panchina gli irregolari bollati come immaturi e inaffidabili. Solo che nel calcio e con la Nazionale si può sempre sperare in una rivincita: tra quattro anni o più, ma una rivincita. Una Nazione no. Una scossa, altrimenti meglio la Nuova Zelanda.
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