Intervento all’Assemblea di Presidenza di Libertà Eguale
10 Febbraio 2017
Vorrei innanzitutto ringraziarvi per l’invito e per l’occasione di affrontare una riflessione, un’analisi importante sui contenuti dell’azione politica degli ultimi anni. Devo dire che, che negli ultimi mesi, nel mezzo del dibatto post referendario non mi era capitato spesso di ascoltare analisi di qualità così elevata. Vi ringrazio, dunque, ma dopo tante analisi così approfondite, anche sull’identità del partito e sugli errori fatti – vorrei provare a fare un passo avanti e cercare di dar risposta ad un’altra domanda che qualcuno pure ha posto in precedenza: “cosa faremo la prossima stagione?”.
Non penso, infatti, che vorremo stare – nonostante sia un passaggio fondamentale – tutto il tempo rivolti a pensare a quello che abbiamo sbagliato, a quello che è andato storto. Perché per quanto possiamo avanzare critiche in merito alla stagione delle riforme che abbiamo conosciuto con Renzi, bisogna riconoscere che questo “riformismo populista” – come qualcuno l’ha definito oggi – è stato uno dei pochi che, negli ultimi anni, ha portato a casa dei risultati, dei risultati molti concreti.
È vero, a volte ci sono stati aspetti discutibili. Io stessa, in alcune occasioni, mi sono ritrovata davanti a dei pacchetti, o a delle modalità di azione e comunicazione, in cui ritrovavo aspetti che mi lasciavano forti dubbi. Tuttavia, in quei casi pensavo: “Questi sono cambiamenti di cui parlo e sento parlare da moltissimi anni. Sento parlare di un riformismo alto, ideale, studiato, ragionato, ma mai realizzato. Questo pacchetto di misure che ho davanti avrà delle sfumature che forse non appartengono a quel riformismo aulico, teorico e perfetto a cui aspiravo, ma sono una cosa che io domani posso votare in Aula e consegnare al Paese”. Per me questa cosa ha avuto un valore enorme. Ha avuto un valore enorme per chi, come me, si è ritrovato a votare in Parlamento, dando un senso ad una legislatura che – ve lo garantisco – era partita con le premesse peggiori, preannunciandosi una legislatura morta, inutile, buttata via. E ha avuto un valore enorme per i cittadini che hanno visto mettersi in moto qualcosa.
Ecco, quando è arrivato Renzi si è riaperta tutta una partita, si sono portati a casa di risultati che all’inizio non erano pensabili. C’era una visione: una visione di modernità applicabile alla pubblica amministrazione, al mondo del lavoro, al mondo della scuola.
Poi è vero che alcune di queste cose non abbiano ottenuto, anche sul piano della comunicazione, i risultati e gli effetti attesi. Molte di queste riforme – giustissime e anche ampliamente appoggiate, all’inizio, sull’onda di questa urgenza di cambiamento – oggi sono finte per essere percepite in maniera più negativa che positiva senza che ce ne sia un vero motivo. Come mai? Ma soprattutto dobbiamo chiederci come facciamo adesso a far cambiare la percezione. Come facciamo a far proseguire una stagione di riforme dandogli lo stesso senso di urgenza che avevano due anni fa? Noi oggi dobbiamo recuperare e comunicare un tipo di visione che generi nel Paese quel tipo di sostegno al cambiamento che c’era tre anni fa, perché senza quel tipo di supporto – e si può discutere sulle modalità di azione di Renzi, ma lui questo tipo di sostegno lo aveva, bene o male, creato – non riusciamo ad andare avanti.
Parliamo quindi di quali dovranno essere i contenuti e di come noi vogliamo immaginare, non solo l’identità, ma la concretizzazione dell’azione politica del Partito Democratico nella vita quotidiana dei cittadini. A tale riguardo, forse per quella che è la mia formazione, io vedo due grandi sfide.
Prima sfida: negli ultimi due anni siamo intervenuti a beneficio delle classi medie con misure sul fronte della tassazione, dei redditi, del contrasto alla povertà e con molte misure di tipo monetario che sono state anche criticate (la “politica dei bonus”). Tuttavia, e la Banca d’Italia ce ne dà conferma, queste misure sono riuscite a mettere in moto la domanda interna, e hanno contribuito a ridare fiducia (tutti i dati ce lo confermano) ai consumatori e alle imprese. La prossima sfida però dovrà andare oltre, e sarà quella di far funzionare la rete dei servizi, ossia la macchina che sta vicina cittadini. Dovremo così offrire risposte concrete ai tanti cittadini non vedono ancora quello che è stato fatto per loro. E questa incapacità di fornire risposte fa sentire loro lo Stato, le istituzioni e la politica ancora lontani. Oggi, dunque, i cittadini hanno bisogno di toccare con mano servizi che funzionano, da quelli dell’impiego di cui ha parlato Pietro, ai servizi di sostegno sociale, servizi per gli anziani, servizi legati alla lotta alla povertà (battaglia sulla quale è stato investito un miliardo, che dovremmo rivendicare di più, ma che avrà bisogno di essere accompagnata da servizi efficaci, altrimenti i soldi da soli non risolvono il problema).
La sfida dei servizi per la costruzione di un nuovo modello di Stato socialdemocratico – chiamiamolo come volete – è di fondamentale importanza, e la vicinanza al cittadino la si costruisce solo così. In questo modo, inoltre, si fa sì che la spesa venga impiegata nel migliore dei modi e non venga dissipata. Su questo tema però non abbiamo ancora ragionato e non è stato trovato un modo per comunicare bene la nostra visione ed il nostro impegno.
Seconda sfida: è necessario tornare a parlare di lavoro, e per lavoro intendo una visione futura che vada oltre la gestione – pur urgente e necessaria – delle crisi aziendali. Di lavoro si parla poco, anche in Parlamento. Fatemelo dire: io siedo in Commissione lavoro alla Camera dei Deputati, e prima che si cominciasse a parlare di jobs act l’avevo ribattezzata “commissione pensioni”: perché si parla solo di previdenza, o di ammortizzatori, ma non di lavoro. Ho dunque salutato con entusiasmo il Jobs Act, dato che -almeno per un anno- in commissione si è discusso di lavoro, poi, però, abbiamo ricominciato a parlare di pensioni, e per oltre un anno tutto il dibattito in materia sociale è stato monopolizzato da questo. Ed il messaggio principale passato l’anno scorso sul fronte delle politiche sociali sono stati i 3 miliardi messi in legge di bilancio sulla pensioni (nonostante in legge di bilancio ci fossero tante altre misure interessanti come il sostegno agli investimenti per l’industria 4.0).
Poi arrivi a dicembre, ti accorgi che i giovani non ti votano al referendum e non ti fai questa domanda. È quindi fondamentale tornare a parlare di lavoro in un’ottica futura affinché possano essere capiti ed interpretati dei trend. Infatti, senza avere una visione lungimirante, incentrare tutto il dibattito sulle emergenze del presente o addirittura su come smontare perzzi di una riforma fatta un anno fa (le riforme in Italia sono una sorta di tela di Penelope: ogni volta che fai un passo avanti c’è qualcuno che cerca di fare due passi indietro) – è miope. Miope soprattutto alla luce dei cambiamenti epocali che stanno colpendo il mondo del lavoro: ad esempio, da qui a qualche anno solo le 5-6 tra le più grandi banche italiane daranno luogo a circa 13.000 esuberi. Si sta parlando di lavoratori di fascia media. Quella fascia media che poi si ribella contro di noi e che finisce per votare Brexit, Trump, Le Pen. Ne abbiamo già pagato il prezzo continueremo e continueremo a pagarlo: queste fasce di lavoratori saranno schiacciate – non tanto dalla globalizzazione (ormai) – ma da una riorganizzazione delle industrie legata al progresso tecnologico, all’automazione, all’intelligenza artificiale. Sembra di parlare fantascienza, ma in molti settori è già realtà. Abbiamo già i numeri, e chi sta lì dentro lo sa bene: da qui a cinque-dieci anni, ci saranno migliaia di esuberi o, alternativamente, le persone dovranno essere riconvertite, riqualificate per assecondare il cambiamento dei modelli produttivi, e su questo tema non c’è alcuna riflessione, alcuna proposta.
Eppure ci sono organismi internazionali che ci forniscono studi, analisi da cui potremmo partire per una riflessione e delle proposte. Per esempio una ricerca dell’OCSE mostra come il 50-60% lavoratori che oggi popolano le industrie ad alta intensità tecnologica – vale a dire quelli che saranno maggiormente a rischio di trasformazione da qui ai prossimi anni – non posseggono le minime competenze tecnologiche: non sanno aprire un foglio Excel. Solo questo dato dovrebbe darci la dimensione del dramma sociale che dovremo affrontare presto. Vogliamo continuare a farlo con i soliti strumenti ex-post, ammortizzatori e pensioni anticipate, o vogliamo fare una riflessione su come gestire questa transizione?
Dunque, perché non ideare, prima che la trasformazione del mondo del lavoro ci colga impreparati, un sistema di servizi, di accordi, di formazione che ci aiuti ad affrontare tali cambiamenti, facendo vedere al Paese che abbiamo un’idea di come aiutare i lavoratori nella transizione. Si dice sempre che la globalizzazione produce dei vincitori e dei perdenti, ma il problema è dato dal fatto che i perdenti li riconosciamo sempre dopo, quando sono rimasti a terra. Dunque, data la drammaticità delle prospettive future, perché non elaborare un sistema che si
relazioni con il lavoratore e provi ad aiutarlo prima che cada?
Dobbiamo farlo. Perché se noi non lo facciamo poi arriva Beppe Grillo che prende un gruppuscolo di presunti esperti e gli faccia fare i vati facendogli esprimere la loro opinione sul futuro senza uno straccio di dato, di analisi vera, ma dando però l’impressione di essere l’unico che si pone il problema. Noi, al contrario, potremmo avere tutte le risorse intellettuali e culturali, a livello nazionale ed internazionale, per fare un piano serio da consegnare al Paese. Facciamolo!
Questo è un tema secondo me cruciale. Insieme, ovviamente, ad altre tematiche del lavoro come l’occupazione giovanile (che poi è un tema strettamente collegato al precedente), ma di cui si parla poco. Eppure su qusto fronte abbiamo preso misure importanti: dall’alternanza scuola lavoro, alla stabilizzazione dei contratti precari, all’estensione di misure di welfare. Misure che però appaiono isolate e scollegate tra loro. Chiudiamo il cerchio: ideiamo un piano organico, un patto per i giovani che possa includere anche servizi veri di accompagnamento al lavoro, un sostegno per la mobilità – perché cogliere le opportunità di studio o lavoro implica spesso andare lontano e non tutti possono permetterselo, un sostegno per la casa, per le giovani famiglie – pensiamo ad un insieme di misure organiche.
Affrontiamo poi il tema del costo del lavoro, dopo tutto lo abbiamo già affrontato con il Jobs Act. Hanno criticato gli incentivi della decontribuzione, però gli incentivi hanno funzionato, hanno detto “ah, è tutto merito degli incentivi”. Beh, si chiama taglio del costo del lavoro, se ne è parlato per vent’anni e noi –alla fine- lo abbiamo fatto. Ancora non ho capito, sinceramente, quale fosse il problema. Il problema, semmai, è capire – dato che abbiamo visto che funziona – come renderlo strutturale: ragioniamo su come farne un elemento chiave della proposta politica di un partito che vede il lavoro come elemento centrale della dignità umana, e che non si nasconde dietro un generico reddito garantito che sappiamo già che non è realizzabile.