Un Paese in cui ogni progetto, visione o investimento che travalichi i confini geografici e temporali del qui e adesso si scontra con un mostruoso mosaico di opposizioni particolari. Interessi e prospettive non solo incapaci di coagulare in una visione congiunta di bene comune, ma spesso foraggiati e incoraggiati dagli stessi politici che quella visione unitaria dovrebbero invece contribuire a ricomporre. Un Paese quindi perennemente imprigionato nei localismi, nel «fate quel che vi pare, ma non a casa mia», il Paese in cui tutti puntano il dito contro tutti ma nessuno à mai disposto a mettere in discussione i propri piccoli grandi interessi, dai deputati agli allevatori di mucche, dai ministri ai tassisti.
Il Paese dove i rifiuti traboccano inondando interi paesi, ma dove nessuno vuole un inceneritore, un Paese dove l’energia costa il 35 per cento più che altrove, stroncando la competitività delle imprese, ma dove à impossibile fare un piano energetico di qualsiasi tipo. Un Paese iper-cementificato, ma dove gli avversari della cementificazione gridano inorriditi all’idea di un grattacielo che da solo potrebbe sostituire centinaia di bifamiliari con giardinetto, restituendo all’ambiente chilometri di terra libera.
E tutti, tutti hanno un unico argomento: «ma in fondo c’e’ proprio bisogno di questa opera?». No, certo che non ce n’e’ bisogno. Non c’e’ mai un bisogno schiacciante di una cosa nuova che prima non c’era. L’Italia in fondo esisteva anche quando non c’erano autostrade, fogne, ferrovie ed elettricità. Ma e’ proprio questo il senso degli investimenti, il senso di una programmazione che guarda in avanti. E’ lì che sta la vera anima rivoluzionaria di un Paese e di un popolo. Non tanto nel saper affossare i governi o ghigliottinare i potenti, ma nel saper guardare al di sopra delle proprie spalle, saper intuire quello che ci può essere e contribuire tutti insieme a costruirlo, assumendosene anche i rischi. Sapersi chiedere cosa può succedere «se».
«Cosa succederebbe se ci fosse un ponte che collega la Svezia alla Danimarca?», si devono esser chiesti un giorno i governanti dei due Paesi. Lo hanno scoperto nel giro di pochi anni. Il ponte di Öresund che collega la città svedese di Malm alla capitale danese Copenhagen fu completato in meno di 4 anni, dal 1995 al 1999, e aperto al pubblico nel 2000. Inizialmente il traffico era inferiore alle aspettative, d’altronde le abitudini di vita e di lavoro delle persone, le attività economiche, non cambiano dalla sera alla mattina.
Il fatto e’ che il rapporto tra infrastrutture e crescita e’ complesso: spesso le infrastrutture anticipano e guidano certi percorsi di sviluppo, e il loro effetto futuro non si può prevedere sulla base dell’utilizzo delle vecchie strutture e tecnologie. Sarebbe stato come se negli Anni Novanta l’Italia avesse deciso che era inutile portare qua Internet e l’e-mail perché il flusso di missive delle Poste italiane era un po’ in calo.
La Spagna ha inaugurato la prima linea veloce nel 1992 e in meno di dieci anni ha costruito circa 2700 chilometri di alta velocità, il triplo dei nostri, e ne ha in cantiere altri 1800 (contro i nostri 92). La Cina ne ha operativi più di sei mila e ne sta costruendo oltre quattordicimila, investendo 309 miliardi di dollari. Per non restare troppo indietro Obama sta spingendo per massicci investimenti nell’alta velocità anche negli Stati Uniti (e proprio in questi giorni il dibattito sull’alta velocità e’ caldissimo anche lì).