08/10/2014 -Talenti da esportazione: Perchè se ne vanno e come riportarli a casa, La Stampa
Aumenta, e anche molto, l’export italiano. Ma non di borse, scarpe o parmigiano: di persone. Soprattutto giovani ed istruite. Questa la fotografia che ci arriva dal Rapporto presentato ieri dalla Fondazione Migrantes. Nel 2013 novantaquattromila italiani che se ne sono andati, il 16% in più dell’anno precente, doppiando i lavoratori stranieri che arrivano (legalmente) nel nostro paese.
Dati come questi hanno sempre l’effetto di rilanciare allarmi sulla fuga dei cervelli, assieme ad appelli per fermare e arginare il fenomeno. Speriamo che stavolta non sia così, e che al posto di allarmi di breve durata, si apra una riflessione più seria e di lungo respiro su un fenomeno complesso e di enorme rilevanza economica. L’internazionalizzazione del “capitale umano”, infatti, è una componente ineludibile del più ampio processo di globalizzazione in atto ormai da quasi trent’anni.
Non si poteva certo pensare che con l’internazionalizzazione dei processi produttivi, con tecnologie di comunicazione e mezzi di trasporto sempre più efficienti ed economici, le persone se ne restassero tutte ferme nei loro paesi. Anzi, a ben vedere i ritmi di apertura e mobilità delle persone sono stati assai più lenti di quanto non lo siano stati quelli di merci, capitali e servizi. Basta pensare che, mentre le persone che hanno cambiato paese di residenza rappresentano appena il 3% della forza lavoro mondiale, il commercio mondiale rappresenta il 27% del PIL globale e il 13% di tutte le vendite realizzate nel mondo. Per non parlare dei flussi di capitali e degli investimenti esteri, che dagli anni Settanta agli anni Duemila hanno quasi decuplicato il loro peso nell’economia mondiale. E’ quindi probabile che la mobilità dei mercati del lavoro continui ad aumentare molto negli anni a venire. Ed è anche auspicabile: perchè in fondo la mobilità consente a ciascuna persona, a ciascun “talento”, di trovare il modo ed il luogo migliore dove svilupparsi, contribuendo positivamente alla propria crescita e a quella del sistema economico.
Tuttavia la riflessione, per l’Italia, non può fermarsi qui e non può restare confinata ai numeri. C’è una dimensione del nostro “export” di talenti che non emerge dalle statistiche, ma che è ben nota a chi frequenta le nostre comunità all’estero. Ed è quel senso di rabbia, di sfiducia verso un paese che in molti casi non hanno lasciato per scelta libera e gioiosa, ma per necessità o per ribellione estrema ad un sistema che non dava loro alcun appiglio, alcuna speranza. Persino tra coloro che se ne sono adanti per libera scelta serpeggia una rassegnata consapevolezza: che anche se il loro espatrio è stato un’opzione, il rimpatrio non lo è.
Quasi tutti lo escludono. O perchè non saprebbero neppure a chi rivolgersi per cercare un lavoro adeguato alle proprie competenze (a nessuno viene neppure in mente di rivolgersi ai centri per l’impiego). O perchè temono di ritrovarsi invischiati in concorsi farsa, annullati il giorno dopo per irregolarità e illeciti, oppure nel limbo dell’attesa di quei settori in cui i concorsi non si fanno neppure perchè si procede per stabilizzazioni di liste accumulatesi con i criteri più disparati nel corso degli anni. Questa è l’Italia che hanno conosciuto, quella da cui fuggono. E questo è il dato, non statistico ma tremendamente reale, su cui dovremmo riflettere. Anche perchè questo è ciò che tiene lontani non solo tanti giovani italiani, ma anche i più brillanti stranieri, che vanno ovunque a cercare opportunità tranne che da noi.
Occorre quindi una riflessione seria, senza allarmismi e senza slogan, che imbastisca un piano di azione puntuale e di lungo respiro. L’approvazione del Jobs Act attualmente al Senato è il primo importante passo, ma occorre pianificare subito le prossime tappe: i decreti attuativi, per esempio, da fare nei tempi più brevi possibili, soprattutto sui temi della riforma dei servizi per l’impiego e delle politiche attive del lavoro.
Perchè è impensabile che, nell’era in cui le persone cercano lavoro a migliaia di chilometri, pronti a spostarsi cambiando città, paese e continente, noi abbiamo servizi all’impiego deboli e frammentati, in cui il disoccupato che si iscrive al centro per l’impiego di una provincia non compare neppure nel database del centro della provincia accanto (oltretutto basi dati in cui solitamente si registrano solo le domande dei disoccupati, non delle aziende).
E poi, subito, un ripensamento profondo delle cosiddette “politiche industriali” su cui, nonostante le mille lamentele, continuiamo a spendere miliardi, ma senza criteri chiari e valutazioni di risultato oggettive. E’ inaccettabile che, in un’epoca in cui crescita e occupazione sono trainate dalle aziende più capaci di far leva sulle nuove tecnologie e sulle scoperte scientifiche, noi pensiamo di fare crescita dando soldi a fondo perduto ad aziende dalle dubbie prospettive di crescita – lasciando poi languire senza risorse i nostri migliori centri di ricerca e soffocare di tasse le aziende più sane ed innovative.
Anche su questo fronte, come su quello del lavoro, occorrono idee coraggiose e decise, non basta dire genericamente che ci vogliono “investimenti per la crescita”. Non è mettendo soldi a caso “nel sistema” che si fa crescita. Ma cambiando il sistema. Pezzo per pezzo. E allora torneranno. Quei giovani che oggi con tristezza vediamo volare altrove, se vedranno un cambiamento vero, torneranno. Col loro patrimonio di energia ed entusiasmo di cui abbiamo tremendamente bisogno. Ma oggi non possiamo chiedergli questo. Oggi è il Paese che deve fare il primo passo.