Mercoledì 3 maggio, dopo un lunghissimo iter di dibattito e audizioni, la Commissione Lavoro della Camera dei Deputati ha approvato la mia risoluzione sul rapporto tra livello occupazionale e sviluppo delle nuove tecnologie.
Nella risoluzione si chiede al Governo di monitorare in modo sistematico – con dati e analisi statistiche – l’evoluzione della struttura occupazionale e delle competenze emergenti legate alle innovazioni tecnologiche, perché – senza un’approfondita conoscenza – non è possibile produrre buoni interventi normativi. Chiedo inoltre di investire in specifiche iniziative formative tese allo sviluppo di nuove professionalità legate all’emersione delle nuove tecnologie.
Riporto, di seguito, il testo della risoluzione. Una forma aggiornata che, rispetto alla formulazione di una mia precedemente risoluzione presentata nel 2015, tiene conto dell’operato del Governo.
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Iniziative in materia di occupazione in relazione agli sviluppi dell’innovazione tecnologica.
NUOVA FORMULAZIONE DELLA RISOLUZIONE APPROVATA DALLA COMMISSIONE
La XI Commissione,
premesso che:
la storia dell’umanità e del mondo del lavoro è stata attraversata da millenni di progresso tecnologico. Dalle prime tecnologie agricole alle macchine della rivoluzione industriale fino alla più recente diffusione dei personal computer e della digitalizzazione che ha fatto crescere esponenzialmente il terziario e i servizi. Nonostante i numerosi e profondi cambiamenti, il numero totale di posti di lavoro, al netto delle periodiche crisi economiche, è sempre andato aumentando;
eppure da sempre, soprattutto nei periodi di crisi occupazionale, l’innovazione tecnologica viene da molti indicata come responsabile della distruzione di posti di lavoro. Questa tesi, esistente sin dai tempi del luddismo, sembra essere tornata in voga negli ultimi supportata anche da analisti ed osservatori secondo i quali l’innovazione tecnologica di cui si è testimoni oggi genererà crisi occupazionali, distruzione di massa di posti di lavoro e povertà diffusa;
l’innovazione tecnologica viene accusata di rendere obsoleti i lavoratori non solo perché in grado di realizzare macchine che possono svolgere le stesse mansioni svolte dagli uomini, ma perché, avendo solitamente come effetto quello di aumentare la produttività delle imprese, si ritiene provochi una ulteriore riduzione del fabbisogno di manodopera;
le analisi degli studiosi e l’evidenza empirica non forniscono però elementi a supporto di tali tesi;
innanzitutto, come evidenziato molti anni fa dagli economisti O. Blanchard (oggi capo economista del Fondo monetario internazionale) e Robert Solow (premio Nobel per l’economia 1987 per i suoi contributi alla teoria della crescita economica), occorre tener presente che l’impatto dell’innovazione sulla produttività e sull’occupazione è collegato alle scelte relative ai livelli produttivi e alle strategie competitive. Solo se l’impresa decide di «congelare» interamente gli incrementi di produttività senza alterare il proprio modello competitivo e quindi senza reinvestire in nuova capacità produttiva si avrà una perdita netta di lavoro. Ma se, come accade tipicamente, l’impresa traduce gli incrementi di produttività in nuova strategia competitiva, per esempio abbassando il prezzo di vendita e aumentando la quota di mercato e la produzione, in tal caso si tende ad avere un aumento di occupazione;
è importante inoltre ricordare che i miglioramenti di produttività ottenuti tramite innovazione tecnologica solitamente si traducono non solo in un aumento di produzione ma anche in altre tipologie di investimento: in maggior ricerca e sviluppo, in miglior comunicazione, pubblicità, distribuzione, qualità del servizio al cliente e così via, trasferendo risorse ad altri settori produttivi (ricerca, servizi professionali, trasporti e logistica, software, design e altro) e generando anche in tali settori nuovi posti di lavoro. Gran parte degli incrementi di produttività conseguiti dall’industria negli ultimi decenni hanno avuto effetti di questo genere: ovvero creazione di più posti di lavoro nei servizi di quanti ne venissero creati (o distrutti) nell’industria stessa;
l’evidenza empirica mostra che, in effetti, non esiste una correlazione positiva tra la crescita della produttività e l’aumento della disoccupazione, e neppure tra l’aumento dell’innovazione tecnologica e la disoccupazione. Come evidenziato nel citato articolo di Blanchard e Solow basati su oltre cento anni di dati sull’economia statunitense e su quella francese, (http://economics.mit.edufiles/1909) al netto del periodo della Grande depressione, non si rileva alcuna correlazione significativa tra i due fenomeni;
anche per quanto riguarda la relazione tra innovazione tecnologica e disoccupazione non si rilevano studi basati su dati ed evidenza empirica a supporto di tale tesi. Dati pubblicati dalla Federal Reserve Bank nel 2001, in cui veniva messo a confronto il tasso di crescita dell’innovazione con il tasso di disoccupazione tra il 1980 e il 2000, mostravano come i due aggregati a partire dal 1984 abbiano avuto una evidente correlazione negativa: all’aumento dell’innovazione corrispondeva un calo della disoccupazione;
dagli anni ottanta anche in Italia si è avuta una fortissima diffusione della computerizzazione e dei processi di digitalizzazione, con un rilevante impatto sulla struttura produttiva ed occupazionale del nostro Paese: nonostante ciò, il numero delle persone in cerca di occupazione nel 2007 (prima della crisi finanziaria internazionale) era quasi la metà di venti anni prima, grazie alla crescita esponenziale del terziario e alla nascita di nuovi servizi. Si tratta di una trasformazione economica e produttiva in realtà già in atto dall’inizio degli anni Settanta, il cui saldo complessivo è da considerarsi decisamente positivo. Nei quarant’anni tra il 1970 e il 2009 — anni di profondissima trasformazione tecnologica ed economia – l’industria italiana ha perso circa un milione di posti di lavoro, l’agricoltura un altro milione, ma i servizi ne hanno creati circa cinque milioni, con un saldo complessivo nettamente positivo (fonte: Istat, «L’Italia in 150 anni», tavola 10.11);
tra l’altro, le previsioni sulle dinamiche occupazionali andrebbero accompagnate da un’attenta lettura dei trend demografici. Il declino dei tassi di natalità nei Paesi sviluppati, infatti, contrarrà la quantità di forza lavoro disponibile del futuro, e secondo alcuni analisti questo rende meno preoccupante una eventuale contrazione della domanda di lavoro, semplicemente perché anche l’offerta si andrà progressivamente restringendo. Le stime dell’organizzazione internazionale per il lavoro (ILO) indicano che la forza lavoro globale nella fascia d’età tra i 5 e i 24 anni si sta contraendo di 4 milioni di unità ogni anno; e secondo alcuni economisti la contrazione dell’offerta di manodopera sarà superiore alla contrazione della domanda, dando luogo a delle « labor shortages» che saranno sempre più significative;
di fatto, già oggi numerosi settori stanno denunciando difficoltà a reperire manodopera, soprattutto quella più specializzata e qualificata: nel 2014 le richieste di lavoratori con competenze matematiche ed informatiche negli Stati Uniti sono state 5 volte superiori alla disponibilità di lavoratori disoccupati con quelle caratteristiche. Anche in Italia rilevazioni come per esempio quelle di Unioncamere sulle previsioni di assunzione delle imprese (rilevazione Excelsior) denunciano una forte difficoltà delle imprese a trovare alcuni profili professionali, in particolar modo quelli con elevate competenze tecniche ed informatiche. Assinform stima che in Italia nei prossimi 5 anni ci sarà una richiesta di 170.000 persone con competenze informatiche specifiche, per cui non si ha il sistema di preparazione necessario;
la trasformazione del sistema economico-produttivo fa inoltre aumentare anche la domanda di alcuni profili professionali meno specializzati, come i collaboratori domestici o gli autotrasportatori, di cui vi è crescente carenza sia in Italia che altri Paesi come mostra anche l’ultimo rapporto Talent Shortage Survey (2015) di Manpower. Appare evidente, quindi, che più che una «scomparsa» di lavori, il cambiamento tecnologico e l’innovazione determinino via via una «sostituzione» di alcuni lavori con altri;
in sintesi, la maggior parte degli studiosi, economisti, demografi e altri osservatori sono concordi nel sostenere che l’innovazione tecnologica in sé e per sé (al netto, quindi, delle crisi e dei cicli economici più profondi) non ha mai comportato nel medio-lungo periodo conseguenze occupazionali negative, né ritengono possa comportarne in futuro;
tuttavia, è sempre molto difficile fare previsioni per il futuro in contesti, come quello dell’innovazione tecnologica, che cambiano in modo rapido e spesso imprevedibile. Alcuni analisti temono, per esempio, che la natura dell’innovazione tecnologica attualmente in corso (come per esempio gli enormi progressi sul fronte dell’intelligenza artificiale) possano avere inediti effetti sulla forza lavoro, incluso quella più qualificata. Purtroppo la scarsità di studi e analisi scientifiche in materia rendono difficile valutare l’effettivo impatto delle future tecnologie e gli eventuali effetti di sostituzione nel futuro mercato del lavoro, ma certamente i Paesi, soprattutto quelli più avanzati, dovrebbero approfondire tali questioni con analisi e ricerche accurate per adeguare tempestivamente i propri sistemi produttivi, educativi e di formazione. Inoltre, il fatto che in una prospettiva di ampio respiro l’innovazione non rappresenti un pericolo per i tassi di occupazione complessivi non significa che nel breve periodo e in determinati settori produttivi essa non possa avere effetti anche dirompenti, soprattutto per quei lavoratori che non posseggano le competenze e le qualifiche necessarie per ricollocarsi facilmente e in tempi brevi in nuove occupazioni e in settori emergenti;
le differenze nella velocità con cui sistemi produttivi da un lato e istituzioni e mercato del lavoro dall’altro si adattano alle nuove tecnologie (molto più rapidi i primi, più lenti e disomogenei i secondi) possono dar luogo a grandi difficoltà per migliaia di persone, con ripercussioni profonde non solo sulle loro famiglie ma anche, seppur in via temporanea, su variabili economiche rilevanti come i consumi e la spesa sociale per ammortizzatori. Senza contare che, nei periodi di transizione legati a forti cambiamenti tecnologici, la scarsità di manodopera qualificata in grado di rispondere alle nuove esigenze tipicamente causa un aumento delle retribuzioni per questa fascia ristretta di lavoratori a fronte di un calo delle retribuzioni e dell’occupazione per gli altri, facendo aumentare, per un certo lasso di tempo, i tassi di diseguaglianza;
in sintesi: le incertezze sull’evoluzione della tecnologia e del mercato del lavoro, nonché i disagi e le problematiche individuali e collettive che i periodi di transizione produttiva e tecnologica possono portare con sé, seppur temporanei sono problematiche rilevanti, e richiedono strumenti di monitoraggio, analisi e di intervento molto più sofisticati e tempestivi di quelli attualmente esistenti;
tra i possibili interventi ipotizzati nel corso degli anni si è diffusa l’idea di una riduzione dell’orario di lavoro come metodo per far fronte agli incrementi di produttività che riducessero la necessità di manodopera, ispirandosi al principio «lavorare meno lavorare tutti»;
misure di questo genere sono state adottate in Paesi come la Francia (nel 1982 e nel 1998) e la Germania (negli anni tra il 1984 e il 1994). Purtroppo però le riduzioni di orario imposte per via normativa ad interi sistemi produttivi non hanno portato i risultati sperati. Anzi, come hanno mostrato numerosi studi, in alcuni casi hanno persino finito per provocare un incremento della disoccupazione (legata al fatto che, per poter mantenere lo stesso livello di retribuzione mensile, lavoratori e sindacati avevano negoziato un salario orario più elevato, determinando così un incremento del costo del lavoro dell’azienda che finiva per licenziare o sostituire i lavoratori con manodopera meno qualificata e meno costosa), in altri casi hanno provocato un incremento dei secondi lavori o del lavoro nero, e nessun miglioramento delle condizioni di lavoro per i lavoratori (per la Germania si veda in particolare lo studio di Jennifer Hunt pubblicato da The Quarterly Journal of Economics nel 1999, per la Francia gli studi di Marcello Estevao del Fondo monetario internazionale e Filipa Sa del Massachusetts Institute of Technology);
l’unico elemento che, fino ad oggi, emerge sistematicamente come cruciale nell’attenuazione dei fenomeni di spiazzamento e sostituzione nel mercato del lavoro è l’istruzione e la formazione. Numerosi studi mostrano come l’istruzione sia l’unico fattore in grado di attutire l’effetto dei cambiamenti produttivi e tecnologici sui lavoratori: lavoratori con più elevati livelli di istruzioni sono meno indifesi di fronte alle innovazioni tecnologiche e a un mercato del lavoro sempre più competitivo;
inoltre, poiché le innovazioni tecnologiche tendono a penalizzare maggiormente i lavori meno qualificati e routinari e le aziende meno innovative, ma ad ampliare o creare nuove opportunità sia per i lavori tipicamente a monte dei processi, come la progettazione, la ricerca e sviluppo, che per le aziende più innovative, ne risulta che i Paesi con i maggiori tassi di investimento in ricerca ed innovazione presentano una maggior resilienza rispetto all’impatto delle nuove tecnologie sul mercato del lavoro, e una maggior capacità di beneficiarne e contrastarne i potenziali effetti negativi;
purtroppo in Italia come in molti altri Paesi europei la ricerca sugli sviluppi tecnologici ed il loro impatto sul sistema produttivo è molto scarsa, gli investimenti per l’ammodernamento tecnologico delle imprese nel quadro della cosiddetta «Industria 4.0» sono molto inferiori a quelli di molti competitor europei, e lo scollamento tra sistema della produzione, sistema dell’istruzione e della formazione professionale resta ancora molto profondo;
la recente riforma della scuola ha rivolto una particolare attenzione al rafforzamento del rapporto tra scuola e lavoro, dotando la scuola di nuovi strumenti per far fronte alle esigenze e ai cambiamenti del mercato, e l’Agenzia nazionale per le politiche attive sul lavoro prevista dalla riforma dei servizi per l’impiego contenuta nel Jobs Act potrà rappresentare un efficace strumento di analisi delle nuove competenze richieste dal mercato del lavoro e di coordinamento delle politiche volte a soddisfare i fabbisogni emergenti;
tuttavia, l’assenza di un monitoraggio costante ed adeguato delle dinamiche tecnologiche ed occupazionali, sia a livello nazionale che internazionale, rende molto difficile orientare ad aggiornare continuamente la formazione e rischia di indebolire l’efficacia dei nuovi strumenti appena varati dal Governo. Inoltre la relativa scarsità di investimenti in ricerca ed innovazione ed in programmi educativi e formativi all’avanguardia rendono il sistema produttivo italiano più lento nell’adeguarsi e nell’incorporare le nuove tecnologie trasformandole in maggiore produttività, maggiore capacità produttiva, investimenti e strategie di mercato espansive,
impegna il Governo:
a sviluppare il progetto avviato dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, che coinvolge, tra gli altri, il Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca e il Ministero dello sviluppo economico, denominato «Il lavoro che cambia», attivando in tale ambito una raccolta dei dati sui trend occupazionali e tecnologici, al fine di fornire accurata analisi sulle dinamiche occupazionali, sull’evoluzione delle competenze richieste dal mercato del lavoro e sull’impatto delle nuove tecnologie, garantendo, inoltre, un’adeguata informazione del Parlamento;
a promuovere e a supportare, attraverso l’azione ed il coordinamento della nuova Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro, la creazione di specifici progetti formativi per la riqualificazione costante dei lavoratori a maggior rischio di sostituzione od obsolescenza a causa delle innovazioni tecnologiche;
a promuovere misure per rafforzare gli investimenti in ricerca e sviluppo sia pubblica che privata e gli investimenti per l’ammodernamento tecnologico delle imprese, in modo da rendere il sistema produttivo più competitivo e da stimolare la creazione e diffusione di nuove figure professionali legate all’innovazione tecnologica.