Cos’è un prodotto finanziario verde? Cosa significa investire in un’attività sostenibile?
Queste e altre domande sono state alla base delle nostre negoziazioni sulla cosiddetta Tassonomia, un regolamento europeo che individua i criteri per determinare se un’attività economica è sostenibile. Dopo tre mesi di “triloghi” (i triloghi sono negoziati interistituzionali che vedono seduti allo stesso tavolo Commissione Europea, Parlamento e Consiglio, per decidere la versione finale di un atto legislativo), che ho presieduto assieme al mio collega Presidente della Commissione Ambiente del Parlamento, finalmente lunedì 16 dicembre a Strasburgo, verso le 11 e mezza di sera, l’accordo politico è stato infine raggiunto su questo regolamento. Si tratta del primo e più ambizioso progetto a livello mondiale, e il nostro obiettivo come Unione Europea è far sì che questo diventi la base, nel tempo, per uno standard internazionale.
Questa proposta si colloca nel più ampio spettro di azione dell’Unione Europea per raggiungere gli obiettivi dell’accordo di Parigi sui cambiamenti climatici del 2016 e dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite per lo sviluppo sostenibile. Sino ad ora gli Stati differiscono nelle loro interpretazioni su ciò che può essere definito come investimento sostenibile, e pertanto la Commissione Europea ha ritenuto necessario, nel quadro della finanza sostenibile, fare una proposta con dei criteri più precisi per evitare anche pratiche di greenwashing (o fake green).
Il cuore della proposta si trova nei sei criteri che sono stati individuati per definire un investimento verde: (1) la mitigazione dei cambiamenti climatici, (2) l’adattamento ai cambiamenti climatici, (3) l’uso sostenibile e la protezione delle acque e delle risorse marine, (4) la transizione verso un’economia circolare, la prevenzione e il riciclaggio dei rifiuti, (5) la prevenzione e il controllo dell’inquinamento, (6) la protezione degli ecosistemi sani. Inoltre, un’importante innovazione nell’approccio garantisce che un investimento sostenibile deve non soltanto perseguire chiaramente uno di questi criteri, ma non deve neanche arrecare danno a nessuno di questi secondo il principio “do not significant harm”.
Sono inoltre molto contenta che sia stato accolto un principio per cui come Socialisti e Democratici abbiamo combattuto a lungo, ovvero che la definizione di investimento sostenibile debba contenere anche riferimenti alla sostenibilità sociale. Perché sostenibilità ambientale e sociale devono andare di pari passo. Per fare un esempio: un’auto elettrica la cui batteria è stata prodotta sfruttando lavoro minorile, non può essere etichettata come sostenibile! Per questo abbiamo combattuto affinché questa tassonomia tenesse in conto anche degli aspetti sociali, e il risultato finale è sicuramente un buon inizio: le attività per essere considerate sostenibili dovranno rispettare, tra gli altri, una serie di standard internazionali (a livello di Nazioni Uniti, OECD ed Organizzazione internazionale del lavoro) e il Pilastro Sociale Europeo. Vigileremo, e in caso combatteremo, affinché anche la legislazione successiva, che implementerà più nel dettaglio queste norme, garantisca sempre degli standard alti in questo ambito.
Su questa misura si baserà anche molto del progetto del Green Deal presentato recentemente da Ursula von der Leyen a Bruxelles, che ci aspettiamo sostenga e acceleri la transizione dell’economia europea verso un modello sostenibile di crescita inclusiva. Secondo le stime della Commissione per conseguire gli obiettivi 2030 in materia di clima ed energia serviranno investimenti supplementari dell’ordine di 260 miliardi di euro l’anno, equivalenti a circa l’1,5 % del PIL (2018), il cui flusso dovrà essere mantenuto costante nel tempo. Gran parte di questi investimenti dovranno provenire necessariamente dal settore privato, anche attraverso un ri-orientamento di questi verso attività verdi, e questo regolamento contribuirà in maniera decisiva a questo obiettivo.