Rafforzare la competitività delle imprese italiane è uno dei nodi cruciali per la ripresa della nostra economia. Ed è, al tempo stesso, sempre stato una delle nostre maggiori debolezze.
Anche per questo il Governo negli ultimi 18 mesi ha dedicato una buona parte delle politiche economiche alle imprese, dalla riduzione dell’IRAP alla riduzione del cuneo fiscale al Piano straordinario per l’export al rifinanziamento della Sabatini per gli investimenti industriali. E ha già annunciato nuove misure per i prossimi anni sul fronte della riduzione fiscale.
Vi sono tuttavia alcuni temi, forse più di nicchia ma non meno importanti, che possono e devono essere affrontati subito. Misure che presentano costi ridotti e impatto potenzialmente enorme. Penso in modo particolare al tema dell’accesso ai capitali necessari alle imprese per crescere, innovare, investire.
Per accesso ai capitali non bisogna intendere banalmente e semplicemente l’accesso al credito come viene comunemente inteso. Occorre ampliare l’orizzonte ed impostarlo su basi nuove. Perchè se pensiamo che l’unica fonte di risorse per le imprese siano le banche, e ci concentriamo solo sul problema del “credit crunch” bancario, poniamo la questione in modo fuoriviante e inconcludente. Il credito bancario è regolato da rigide normative europee che tra l’altro vanno e andranno sempre più restringendosi, a difesa della stabilità dei sistemi economici e dei cittadini (abbiamo visto gli effetti devastanti del credito facile degli anni passati). E se le nostre imprese sono piccole, poco e male capitalizzate e piene di debiti, sarà impossibile spingere o costringere le banche ad aprire i rubinetti – e forse è anche meglio così viste le potenziali conseguenze.
Ma i debiti non solo l’unico modo di finanziare investimenti e crescita aziendale. Anzi. Quella del ricorso al credito/debito è una peculiarità del sistema italiano, in cui piccoli e medi imprenditori sono stati sempre diffidenti verso i mercato di capitali, diffidenti ad aprire le proprie aziende a nuovi soci, a capitale fresco, a nuove strategie e prospettive.
Il sistema delle imprese italiane ha una leva finanziaria del 44% contro una media europea del 39% (35% in Francia, negli USA siamo intorno al 27%) ma soprattutto va sottolineato che tra le fonti esterne di finanziamento il 64% è rappresentato da crediti bancari contro una media europea del 46%, in Francia USA e UK i crediti bancari rappresentano una parte ancora più piccola dei finanziamenti esterni, circa un terzo.
E’ evidente che questo assetto non è sostenibile. Come ha ricordato la Relazione all’Assemblea Ordinaria dei Partecipaneti della Banca d’Italia 2015:
“L’erogazione dei prestiti diverrà più selettiva; andrà stimolato lo sviluppo di forme alternative di finanziamento, necessarie per evitare una carenza di risorse per l’economia reale. (…) Lo spostamento di una parte del processo di intermediazione dalle banche ai mercati potrà giovare sia alle imprese sia alle famiglie, consentendo alle prime di ampliare le fonti di finanziamento, alle seconde di diversificare maggiormente il risparmio. (…) La costruzione di un sistema articolato – in grado di offrire all’economia, non nell’ombra ma in piena trasparenza il necessario sostegno finanziario – è un obiettivo indifferibile.
Eppure le nostre imprese faticano a cambiare modello, a crescere, ad aprirsi ai capitali e a criteri manageriali riforosi e trasparenti. Lo so vede anche dal bassissimo numero che si quota in Borsa, per esempio. Solo 339 contro le 705 della Germania, le 1030 della Francia e le 2467 del Regno Unito.
Non solo: abbiamo la percentuale più alta di abbandono tra le matricole che avviano il processo di quotazione. Tra il 2008 e il 2014 il 57% delle aziende che avevano presentato domanda hanno abbandonato, contro il 28% di Londra, il 27% di Francoforte, il 9% di Parigi.
Secondo una ricerca svolta dalla Bocconi, in collaborazione con Borsa Italiana, se l’Italia portasse a 1.000 il numero delle aziende quotate si avrebbe un incremento del pil reale tra lo 0,9% e l’1,5%, un aumento dell’occupazione (+137.000 posti di lavoro in un anno) ed un aumento del gettito fiscale (+2,85 miliardi di euro).
A dire il vero gli ultimi Governi hanno già adottato delle misure su questo fronte, per stimolare le imprese a capitalizzarsi, aprirsi, quotarsi. Fanno parte di queste iniziative l’introduzione dei mini-bond, gli sgravi per chi decide di quotarsi e per le ricapitalizzazioni (ACE e Super-ace).
Cosa manca quindi? Manca l’altra parte: un mercato di capitali pronti ad investire in queste imprese. La scarsità di imprese ha reso il mercato piccolo, meno liquido, percepito anche come più rischioso, e ha stimolato meno l’offerta di capitali. Basta pensare che i Fondi comuni di investimento italiani specializzati in “small caps” (piccole e medie imprese, a bassa capitalizzazione) sono appena cinque. Dieci anni fa erano undici. In francia e UK sono una cinquantina. Dieci volte l’Italia.
Senza contare che i nostri investitori istituzionali tendenzialmente sono restii ad investire nell’economia reale, preferendo i titoli di stato. Il 35% delle loro attività va in titoli stato contro meno del 10% nell’area EU. La quota di attivi dei fondi pensione negoziali, delle casse di previdenza e delle assicurazioni investita in “equity” Italia, ovvero nel capitale delle imprese italiane è appena l’1%. Che arriva al 3% per i fondi aperti.
E’ necessario quindi trovare dei modi per stimolare l’offerta di capitali disponibili per le nostre imprese, incoraggiando potenziali investitori e risparmiatori a credere nelle nostre imprese. Altrimenti apppare veramente sterile e ipocrita lamentarsi quando queste finiscono per essere acquistate da gruppi stranieri, se nel nostro Paese noi, per primi, non abbiamo creduto ed investito nelle nostre imprese.
Come ottenere questo obiettivo? Un modo è quello dell’adozione di schemi di agevolazioni speciali per chi investe nell’economia reale e nelle piccole-medie con intenti non speculativi. Vale a dire soggetti (che possono essere sia persone fisiche oppure giuridiche, come per esempio fondi specializzati che rispondano a determintae caratteristiche) che mantengano il loro investimento per un certo numero di anni, in modo da garantire un minimo di stabilità finanziaria alle imprese.
Altri Paesi l’hanno già fatto, come la Francia per esempio, attraverso consistenti sgravi per le persone che investano in nei titoli delle piccole e medie imprese a determinate condizioni (come la durata dell’investimento). Un altro paese che da molti anni fa leva su strumenti di questo genere è l’Inghilterra, che ha adottato misure come l’Enterprise Investment Scheme (EIS) ed il Venture Capital Trust.
Purtroppo in Italia una generalizzata diffidenza verso i mercato di capitali, ed una incapacità di distinguere la finanza speculativa da quella “buona”, necessaria e fondamentale per supportare l’economia, ha impedito e rallentato queste misure. E questo nonostante i nostri padri costituenti abbiano stabilito la necessità di favorire “l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione, alla proprietà diretta coltivatrice e al diretto e indiretto investimento azionario nei grandi complessi produttivi del Paese”. (art. 47 della Costituzione)
Sarebbe infine opportuno che una misura di questo genere fosse accompagnate da altre iniziative che possano far sì che la maggior liquidità finisca effettivamente in investimenti industriali, in ricerca ed innovazione. Un esempio potrebbero essere degli schemi di ammortamento accelerato per gli investimenti industriali, o un rafforzamento degli incentivi per i programmi di ricerca e sviluppo.