Di seguito il testo della proposta di legge presentata assieme a Fabrizia Giuliani (PD) e Mara Carfagna (FI) “Misure fiscali a sostegno della partecipazione al lavoro delle madri con figli minori che siano inattive da almeno tre anni”.
RELAZIONE
Onorevoli Colleghi – La partecipazione femminile al mondo del lavoro è un elemento fondamentale per lo sviluppo economico e sociale, che contribuisce alla crescita di un Paese e alla sua prosperità. Eppure il contributo che le donne danno all’economia delle comunità in cui vivono è ancora significativamente inferiore a quello che vorrebbero e potrebbero dare.
Con l’adesione alla Strategia Europa 2020 l’Italia si è impegnata ad aumentare il tasso di occupazione delle persone in età compresa tra i 20 e i 64 anni “anche mediante una maggior partecipazione delle donne”, che in Italia è particolarmente bassa, nonchè a “promuovere nuove forme di equilibrio tra lavoro e vita privata, parallelamente a politiche di invecchiamento attivo, così come la parità fra i sessi”.
Nonostante siano passati già cinque anni dall’adesione ad Europa 2020 (e 15 anni dalla strategia di Lisbona che conteneva obiettivi analoghi sul fronte occupazione e della parità fra i sessi), il livello di adempimento di tali impegni è molto basso e la situazione non solo stenta a migliorare, ma negli ultimi anni, a causa della crisi economica, ha fatto registrare un peggioramento su molti fronti.
I dati più recenti, presentati dall’ISTAT ad inizio aprile 2015 denunciano una situazione di emergenza per quanto riguarda la disoccupazione femminile che è tornata a salire, arrivando per il mese di Febbraio 2015, al picco del 14,1% contro la sostanziale stabilità del dato maschile, fermo invece all’11,7%. Un dato che segna un sostanziale peggioramento (+0,9) rispetto al febbraio 2014. Aumenta leggermente il numero delle donne che cerca lavoro (contribuendo in parte a far salire il tasso di disoccupazione, ma resta altissimo il tasso di inattività femminile: quasi nove milioni di donne tra i 15 e i 64 anni che non svolgono alcun lavoro ovvero il 45.5% della popolazione femminile in età lavorativa, contro i circa cinque milioni di uomini inattivi, corrispondenti al 26.4% quella maschile.
Il rapporto evidenzia, dunque, il persistere di una bassa partecipazione al mercato del lavoro; la quota di occupate, infatti, è del 46,8 per cento, inferiore di 12,4 punti al valore medio della Ue28.
Il dato negativo è in parte mitigato da alcuni fattori come il contributo delle occupate straniere, che sono aumentate di 359 mila unità tra il 2008 e il 2013 (a fronte di un calo delle italiane di 370 mila unità), l’aumento di quante entrano nel mercato del lavoro per sopperire alla disoccupazione del partner nel Mezzogiorno e, soprattutto, delle occupate con 50 anni e più per l’innalzamento dell’età pensionabile.
Tuttavia, appare importante segnalare che nella fascia di età tra 15 e 49 anni il tasso di occupazione è diminuito per tutte le donne, siano esse single, in coppia o monogenitore. Con particolare aggravio per le donne con figli, soprattutto al sud.
Come ha denunciato l’ultimo Rapporto annuale dell’ISTAT di Maggio 2014, nel Mezzogiorno le madri occupate sono il 35,3 per cento, poco più della metà del Centro-Nord. Peggiora, inoltre, la già difficile conciliazione dei tempi di vita delle donne, che sono ancora troppo spesso costrette a uscire dal mercato del lavoro in occasione della nascita dei figli: è andata aumentando, infatti, la quota di madri che non lavora più a due anni di distanza dalla nascita dei figli (22,3 per cento nel 2012 dal 18,4 del 2005), soprattutto nel Mezzogiorno dove arriva al 29,8 per cento.
E’ aumentata di 4 punti percentuali, raggiungendo il 42,7 per cento, anche la quota di neomadri che hanno un lavoro e che segnalano difficoltà di conciliazione dei tempi di vita.
Già i dati di una precedente indagine, pubblicati da un Rapporto di Italia Lavoro nel 2012, avevano indicato come la nascita dei figli in Italia rappresenti uno dei fattori più rilevanti nel frenare la partecipazione femminile al mondo del lavoro, molto più che negli altri Paesi europei. Mentre in Francia e in Olanda, per esempio, le differenze tra i tassi di occupazione delle donne senza figli, con 1 figlio e con 2 figli sono modestissime e lo scarto diviene significativo solo a partire dal terzo figlio, in Italia la differenza tra il tasso di occupazione delle donne senza figli e quelle con 1 figlio è di 4 punti, con 2 figli è di 10 punti e con tre figli o più è addirittura di 22 punti.
Non a caso l’Italia è il paese europeo nel quale più alta è la percentuale di coppie in cui lavora solo il maschio e le donne scelgono di dedicarsi alle attività domestiche e di cura: il 37,2% contro una media euuropea 24.9% – dato che scende ulteriormente nei paesi nordeuropei, con un 12,5% della Svezia e un 11,9% in Danimarca. Il modello tradizionale di coppia nel quale solo l’uomo provvede al sostentamento della famiglia prevale nel Mezzogiorno dove in oltre la metà delle famiglie lavora solo l’uomo, mentre nel Nord questa percentuale si riduce a circa un quarto (25,2% nel Nord-Ovest e 21,3% nel Nord-Est.
Sempre dal rapporto di Italia Lavoro e del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali sappiamo che 27% delle donne che hanno cessato volontariamente il rapporto di lavoro lo ha fatto a causa della maternità o della nascita di un figlio (14,9%) oppure per prendersi cura dei figli o di altre persone non autosufficienti (12,2%). Solo lo 0,5% degli uomini ha abbandonato il lavoro per prendersi cura dei figli. La maggioranza delle donne che lasciano il lavoro alla nascita primo figlio considera questa scelta provvisoria e reversibile. Tuttavia, le interruzioni che si trasformano in un’uscita prolungata dal mercato del lavoro risultano molto più elevate per le donne residenti nel Mezzogiorno. In Valle d’Aosta e nel Lazio metà delle donne abbandonano il lavoro per maternità o per curare la famiglia, il 9% in Umbria e il 10% in Toscana. Nelle regioni del Centro-Nord si registrano le percentuali maggiori di abbandoni del lavoro per motivi familiari (31%) rispetto al Mezzogiorno (19,7%). Anche se le donne occupate nel Mezzogiorno hanno una minore propensione ad abbandonare il lavoro dal momento che sono consapevoli che sarà molto difficile ritrovarlo, tuttavia nelle regioni meridionali le interruzioni che si trasformano in un’uscita prolungata oltre cinque anni sono pari al 77,1% contro il 57,2% del NordEst.
Le indagini menzionate hanno inoltre evidenziato che la decisione di molte madri di abbandonare o non cercare un lavoro non dipende, per una quota importante delle donne inattive, dalla carenza di servizi per l’infanzia, ma è una scelta più o meno volontaria, provocata sia da fattori culturali che da considerazioni di natura economica. Infatti i modesti livelli retributivi di molte donne rendono poco conveniente o addirittura insostenibile affidare la cura dei figli a personale retribuito o a strutture pubbliche o private che richiedono il pagamento di una retta. Questa evidenza segnala che l’indispensabile aumento dell’offerta e della qualità dei servizi per l’infanzia non è l’unica misura necessaria per aumentare l’occupazione femminile perché occorre intervenire anche con misure fiscali per aumentare la convenienza a lavorare delle donne con figli.
Numerosi studi internazionali, tra cui una Discussion Note del Fondo Monetario Internazionale pubblicata nel febbraio 2015 (“Fair Play”), hanno evidenziato l’importanza della leva fiscale per stimolare le donne a cercare lavoro, confermando una maggiore elasticità dell’offerta di lavoro femminile alle politiche fiscali.
Le politiche per la ripresa economica nel nostro Paese non possono dunque prescindere da azioni volte a rompere il circolo vizioso che relega la maggior parte delle donne italiane nel sistema del lavoro domestico escludendole da quello del lavoro professionale. È divenuto più che mai urgente trasformare l’enorme giacimento di capitale umano femminile presente nel nostro Paese, largamente inutilizzato o sottoutilizzato, in un fattore fondamentale per la ripresa dello sviluppo, della competitività, del benessere sociale, con ciò passando dal tipico equilibrio “vetero-mediterraneo” attuale, caratterizzato dalla bassa partecipazione femminile, a un equilibrio più virtuoso, che consenta la liberazione di questo potenziale latente di energie e competenze.
Il “dividendo sociale” di questo investimento è evidente: più donne occupate nel tessuto produttivo regolare significa più sviluppo, aumento del tasso di natalità, famiglie più dinamiche e sicure economicamente, meno bambini in condizioni di povertà.
A tal fine la presente legge propone, in via sperimentale, una semplice misura di incentivazione fiscale che mira direttamente a promuovere il lavoro delle donne con figli, ovvero le più fragili nel mercato del lavoro, a maggior rischio di abbandono, una misura utile anche in funzione del raggiungimento dei traguardi fissati dalla citata strategia di Lisbona. A sostegno di questa scelta va ribadito come la domanda e l’offerta di lavoro femminile siano assai più elastiche rispetto a domanda e offerta di lavoro maschile: il che consente di confidare in un effetto della riduzione dell’imposta molto positivo sui livelli occupazionali.
La misura non può essere qualificata come discriminatoria in ragione del genere dei lavoratori, dal momento che essa è esplicitamente mirata a superare un assetto socio-economico produttivo di effetti discriminatori a carico delle donne: essa può e deve dunque essere qualificata come “azione positiva” volta a raggiungere un obiettivo al cui perseguimento la Repubblica italiana è vincolata dall’Unione Europea (che all’art. 23 della Carta Europea dei diritti dell’Uomo prevede l’adozione di iniziative che assicurino la parità tra uomini e donne in tutti i campi, esplicitando oltretutto che “Il principio della parità non osta al mantenimento o all’adozione di misure che prevedano vantaggi specifici a favore del sesso sotto-rappresentato”). L’adozione di azioni positive al fine di raggiungere pari opportunità tra uomini e donne è inoltre prevista dall’articolo 51 della Costituzione italiana.
La norma punta esplicitamente a far sì che, a parità di reddito percepito, il prelievo IRPEF su quello della contribuente lavoratrice donna sia significativamente inferiore a quello esercitato sul reddito identico del lavoratore maschio.
Venendo ad illustrare più dettagliatamente gli aspetti della misura proposta, va precisato che essa consiste in una forte riduzione del prelievo fiscale sui redditi da lavoro a favore di tutte le donne con figli minori che decidano di rientrare nel mercato del lavoro dopo almeno tre anni di inattività, siano esse lavoratrici dipendenti, economicamente dipendenti o autonome. In particolare, si prevede per tale platea l’applicazione di aliquote IRPEF ridotte per i cinque periodi d’imposta successivi all’inizio dell’attività lavorativa (art. 1).
Il taglio – concentrato in prevalenza sul primo scaglione di reddito, per il quale il prelievo è portato a zero (no tax area fino a 15mila euro) – è tale da comportare una riduzione d’imposta per tutti i redditi di lavoro, di qualunque natura ed importo. L’entità della riduzione in rapporto al reddito netto attuale è resa tuttavia più intensa per i redditi fino a 28mila euro, cioè per la fascia di reddito in cui si concentra a tutt’oggi il maggior numero di contribuenti donne. In particolare, si prospetta un incremento del reddito disponibile che raggiunge il 30 per cento per i redditi fino a 15mila euro, e il 24 per cento per i redditi compresi tra 15mila e 28mila euro, per scendere al 15 per cento per i redditi fino a 55mila euro e ridursi ulteriormente per i redditi maggiori (art. 2).
Per le donne residenti nelle aree o occupate nei settori in cui il tasso di partecipazione al lavoro delle donne è inferiore per almeno il 25 per cento al tasso medio nazionale riferito a tutti i settori economici, in aggiunta al regime speciale di imposizione previsto dall’articolo 2, è prevista l’applicazione di una specifica detrazione forfetaria d’imposta sul reddito personale, articolata secondo tre fasce di reddito, entro il limite dei 40mila euro annui (art. 3). Questa ulteriore detrazione, mirata a riconoscere una tutela più intesa alle donne in posizione di particolare svantaggio, territoriale o professionale, è in linea con la qualificazione di “lavoratore svantaggiato per genere” di cui al vigente regolamento comunitario in materia di aiuti di Stato (regolamento CE/800/2008).
Trattandosi di una defiscalizzazione a beneficio esclusivo di lavoratrici non inserite nel mercato del lavoro, e con scarsa probabilità statistica di rientrarvi, essa non dovrebbe comportare alcuna perdita di gettito nel breve-medio periodo, mentre comporterebbe, al contrario, un aumento del gettito particolarmente consistente quando le lavoratrici esauriscano il periodo di tassazione agevolata e restino comunque nel mercato del lavoro. Tuttavia, all’articolo 5, si è predisposta una norma di copertura finanziaria volta a far fronte ad oneri stimati in un massimo di 250 milioni di euro annui.
DISEGNO DI LEGGE
Art. 1
(Finalità)
1. Al fine di promuovere e sostenere la partecipazione al lavoro delle donne, in particolare quello delle donne madri, ed in funzione del raggiungimento degli obiettivi di occupazione femminile fissati dalla strategia di Lisbona per la crescita e l’occupazione, alle madri con figli minori che siano inattive da almeno tre anni e che rientrino nel mercato del lavoro come lavoratrici dipendenti, economicamente dipendenti e autonome, è riconosciuto in via sperimentale il regime speciale di imposizione sui redditi personali di cui alla presente legge.
Art. 2
(Regime speciale di imposizione sui redditi)
1. A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge e fino al 31 dicembre del quinto anno successivo, alle madri con figli minori che siano inattive da almeno tre anni, titolari di redditi di cui agli articoli 49, comma 1, 50, comma 1, lettere a), c-bis), e l), 53, 66 e 67, comma 1, lettere i) e l), del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, si applicano, in deroga all’articolo 11 del medesimo decreto, limitatamente ai citati redditi di lavoro e per i cinque esercizi di imposta successivi all’avvio dell’attività lavorativa, come definito ai sensi del comma 2, le seguenti aliquote per scaglioni di reddito:
a) fino a 15.000 euro, 0 per cento;
b) oltre 15.000 euro e fino a 28.000 euro, 21 per cento;
c) oltre 28.000 euro e fino a 55.000 euro, 36 per cento;
d) oltre 55.000 euro e fino a 75.000 euro, 41 per cento;
e) oltre 75.000 euro, 43 per cento.
2. Ai fini dell’accesso al regime impositivo speciale di cui alla presente legge, l’avvio dell’attività lavorativa è individuato dalla data di prima iscrizione ad una gestione di previdenza obbligatoria ovvero, in caso di donne già iscritte ad una gestione previdenziale con posizioni inattive da almeno tre anni, dalla data di ripresa dei versamenti contributivi. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, da adottarsi entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono individuate le modalità di accertamento e qualificazione della posizione previdenziale della lavoratrice.
Art. 3
(Lavoratrici residenti nelle aree svantaggiate)
1. Alle lavoratrici di cui all’articolo 2, comma 1, residenti in aree territoriali o occupate in settori o professioni caratterizzati da un tasso di partecipazione al lavoro delle donne inferiore per almeno il 25 per cento al tasso medio nazionale riferito a tutti i settori economici, si applica, per i medesimi esercizi di imposta, in aggiunta al regime speciale di imposizione di cui all’articolo 2 della presente legge e alle detrazioni di cui all’articolo 15 del testo unico del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, una detrazione forfetaria aggiuntiva pari a:
a) 400 euro, se il reddito complessivo non supera 15.000 euro;
b) 300 euro, se il reddito complessivo è superiore a 15.000 euro ma non a 30.000 euro;
2. In caso di incapienza, totale o parziale, l’importo della detrazione non goduta è corrisposto in forma di erogazione diretta alla lavoratrice, a condizione che il reddito del nucleo familiare di appartenenza, valutato secondo l’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) ai sensi del regolamento di cui al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 5 dicembre 2013, n.159, sia pari o inferiore a 20.000 euro annui con riferimento a nuclei con tre componenti. Con decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, da adottarsi entro due mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono stabilite le modalità di accesso al beneficio di cui al presente comma 1.
Articolo 4
(Monitoraggio)
1. Al fine di consentire un monitoraggio permanente degli effetti degli interventi di attuazione della presente legge e la sua efficacia, il Ministro del Lavoro e delle politiche Sociali di concerto con il Ministro per l’Economia e le Finanze, presentano annualmente al Parlamento una relazione sull’applicazione delle disposizioni di cui agli articoli 2 e 3, con particolare riferimento agli effetti sull’efficienza del mercato del lavoro, sull’impatto occupazionale, specificando il numero di donne che hanno beneficiato della misura e il loro profilo socio – economico, demografico e lavorativo, nonché i relativi dati sull’impatto occupazionale suddiviso per città, regioni e settori di attività e i suoi effetti finanziari.
Art. 5.
(Copertura finanziaria)
1. All’onere derivante dall’attuazione della presente legge si provvede, entro il limite di 250 milioni di euro in ragione d’anno, mediante i risparmi di spesa di cui ai commi 2 e 3 del presente articolo.
2. A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, ciascuna amministrazione pubblica è tenuta ad adeguare le proprie attività agli indirizzi, ai requisiti e ai criteri formulati dal Dipartimento della funzione pubblica della Presidenza del Consiglio dei ministri di cui all’articolo 19, comma 9 del decreto legge n. 90 del 24 giugno 2014. A decorrere dalla stessa data:
a) in mancanza di una valutazione corrispondente agli indirizzi, requisiti e criteri di credibilità definiti dal Dipartimento della funzione pubblica, non possono essere applicate le misure previste dall’articolo 21 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, in materia di responsabilità dirigenziale, ed è fatto divieto alle pubbliche amministrazioni di corrispondere ai propri dirigenti la componente della retribuzione legata al risultato; il dirigente che contravvenga al divieto per dolo o colpa grave risponde per il maggior onere conseguente;
b) è fatto divieto di corrispondere al dirigente il trattamento economico accessorio nel caso in cui risulti che egli, senza adeguata giustificazione, non abbia avviato il procedimento disciplinare nei confronti dei dipendenti in esubero che rifiutino la mobilità, la riqualificazione professionale o la destinazione ad altra pubblica amministrazione, entro un ambito territoriale definito e nel rispetto della qualificazione professionale;
c) è fatto divieto di attribuire aumenti retributivi di qualsiasi genere ai dipendenti di uffici o strutture che siano stati individuati per grave inefficienza, improduttività, o sovradimensionamento dell’organico.
4. Dall’attuazione del comma 2 devono derivare risparmi per 125 milioni di euro per l’anno 2015 e per 250 milioni di euro a decorrere dall’anno 2016. I risparmi devono essere conseguiti da ciascuna amministrazione secondo un rapporto di diretta proporzionalità rispetto alla consistenza delle rispettive dotazioni di bilancio. In caso di accertamento di minori economie, si provvede alla corrispondente riduzione, per ciascuna amministrazione inadempiente, delle dotazioni di bilancio relative a spese non obbligatorie, fino alla totale copertura dell’obiettivo di risparmio ad essa assegnato.