«Questa riforma del Patto di stabilità è una grande occasione sprecata». Irene Tinagli, eurodeputata del Pd, è presidente della commissione Problemi economici del Parlamento Ue che l’11 dicembre scorso ha approvato la posizione negoziale dell’Eurocamera sul Patto di stabilità, ovvero le modifiche alla proposta della Commissione che verranno poi negoziate con il Consiglio (i Paesi Ue che hanno raggiunto l’intesa due giorni fa).
È una buona riforma?
«Avevamo iniziato questo percorso di riforma con tre grandi obiettivi: 1) semplificare delle regole arzigogolate; 2) dare agli Stati un orizzonte di medio-lungo periodo per ridurre il debito, durante il quale si potessero fare gli investimenti che servono per la competitività, per l’innovazione, per la crescita; 3) una personalizzazione maggiore eliminando i vincoli quantitativi uguali per tutti che non tengono conto della necessità sia di investimenti che di riforme e delle specificità di ciascun Paese. Questi tre obiettivi sono stati snaturati».
Perché?
«L’insieme di regole è estremamente pesante e complicato. L’orizzonte di medio lungo periodo con lo spazio per gli investimenti è pesantemente minato dalla reintroduzione di tanti vincoli annuali uguali per tutti voluti dalla Germania e gli unici minimi margini di flessibilità sono solo nella parte correttiva e valgono per tre anni».
Non sono parametri più morbidi rispetto al passato?
«Sono leggermente inferiori su alcune cose però dobbiamo anche tenere presente che le regole vecchie, pur avendo una richiesta di correzione più elevata, prevedevano anche una serie di deroghe in fase di implementazione».
Quindi era meglio il vecchio Patto?
«Tutti dicono di no perché sulla carta i numeri delle correzioni sono più bassi. Ora il problema vero è come saranno implementate perché le regole vecchie — e questo era uno dei punti deboli e il motivo per cui i Paesi frugali volevano cambiarle — nella fase di attuazione alla fine offrivano vie d’uscita. Il punto sarà vedere il nuovo Patto alla prova nei prossimi 5-10 anni, quando non ci sarà più la flessibilità del 2025-2027».
Come sarà il negoziato con il Parlamento Ue?
«Quando il Consiglio arriva in negoziato con una posizione così sofferta e così complicata di solito la posizione è molto rigida, sarà difficile che i Paesi Ue cedano qualcosa. Ma anche il Parlamento ha una posizione non semplice perché è stata comunque difficile negoziarla in Parlamento e ha un testo radicalmente diverso da quello del Consiglio. Noi prevediamo più margini di flessibilità e nel nostro testo non ci sono regole sul deficit, si parla di spesa sociale. Sarà un negoziato molto difficile».
Perché la Germania ha ottenuto tutto e Francia e Italia solo una flessibilità temporanea?
«Francia e Italia hanno giocato divise e la collaborazione è arrivata solo in zona Cesarini. Inoltre Parigi e Roma avevano la necessità di fare delle leggi di bilancio espansive l’anno prossimo e l’anno successivo, nei due anni precedenti alle elezioni politiche. Questo ha penalizzato la visione di medio-lungo periodo. E poi la Germania aveva meno da perdere se fossero rimaste le regole vecchie».
Come viene letta a Bruxelles la mancata ratifica del Mes?
«Non è un bel messaggio. Il governo prima ha proposto una logica a pacchetto che evidentemente non ha funzionato. Ora di fronte all’elettorato italiano per far vedere che il governo batte i pugni sul tavolo con l’Europa hanno bocciato il Mes, secondo una logica compensativa. Avrebbero dovuto fare la strategia opposta: ratificare subito il Mes acquistando credibilità agli occhi europei e poi farsi valere di più sul Patto».
Alcuni politici dell’opposizione accusano Giorgetti di essere debole in Europa?
«La gara di chi metteva più veti a parole tra Meloni e Savini non lo ha aiutato nel costruire un negoziato in Europa e nell’avere un mandato chiaro e incisivo sul Patto. E il voto sul Mes ha confermato le divisioni della maggioranza».