Oggi ho colto l’occasione della presenza in Aula del Ministro della Giustizia Orlando per richiedere maggiori chiarimenti rispetto ad una problematica a me molto cara: la condizione dei bambini in carcere.
Avevo già sottoposto all’attenzione dell’allora Ministro Cancellieri l’urgenza e la garvità della situazione, senza però aver ricevuto una risposta a riguardo.
Sono convinta che la civiltà di un Paese si misura anche sul modo in cui tratta i suoi essere più deboli e penso che non possa esserci essere più debole di un bambino che vive una condizione carceraria che non è in nessun modo sua colpa.
Di seguito il testo del mio intervento durante il Question Time alla Camera:
Al Ministro della giustizia, per sapere – premesso che:
con la legge n. 62 del 2011, in vigore da gennaio scorso, le madri potranno scontare la pena con i loro figli fino al compimento del sesto anno di vita del bambino, non più solo fino al terzo, e non in carcere;
l’intento della norma è quello di facilitare l’accesso delle madri alle misure cautelari alternative: la pena sarà infatti scontata in istituti a custodia attenuata, luoghi colorati, senza sbarre, a misura di bambino. Attualmente, però, le strutture esistenti sono solo due e l’obiettivo della legge rischia di rimanere incompiuto;
occorre prendere coscienza della attuale situazione delle carceri femminili, dove i bambini sono costretti a vivere reclusi con le madri (ad oggi, nelle sezioni nido delle carceri italiane sono ospitati circa 60 bambini da 0 a tre anni di età: numero probabilmente destinato ad aumentare, considerando le mamme detenute in stato di gravidanza) e a condividere con le stesse le problematiche del sovraffollamento, nonché della carenza di organico che rendono ancora più dura la condizione della detenzione;
in alcuni casi sono ospitati in asili nido, ma non tutte le strutture femminili riescono a garantire questi spazi. E così capita anche che un bambino o una bambina debba crescere dietro le sbarre, scontando la pena per una colpa che non ha commesso, a volte anche da solo;
bisogna tener presente che piccoli incolpevoli porteranno per sempre i segni di questa violenza psicologica e, per questo, è necessario farsi carico dell’urgenza di trovare soluzioni diverse e dignitose;
il periodo pre e post-parto risulta caratterizzato da momenti di grande ansia per la maggior parte delle donne, ma per quelle che vivono in carcere i normali stress vengono ad essere moltiplicati, amplificando il vissuto di inadeguatezza ed impotenza;
il carcere per i propri figli è l’ultima delle soluzioni che una madre ricerca ed è quella che vive con più inquietudine, poiché significa esporre il bambino a qualcosa di cui non solo non conosce esattamente le dinamiche, ma della cui realtà percepisce l’assoluta precarietà e mancanza di diritti sia come persona che come madre;
il retroterra sociale di deprivazione, i contatti familiari inconsistenti, l’isolamento, una instabile salute fisica e/o mentale e la coscienza che il bambino potrà essere affidato ad un ente assistenziale, costituiscono soltanto alcuni dei problemi che vivono queste donne, testimoniando un bisogno di tutela particolare;
da ricordare poi anche i bambini che entrano in carcere per far visita al genitore detenuto: circa centomila ogni anno in tutta Italia, secondo le stime fornite dall’Associazione bambini senza sbarre, sono sottoposti a perquisizione prima di entrare, proprio come gli adulti, e spesso sono costretti a incontrare il genitore in spazi grigi e chiusi;
un passo in avanti è stato fatto nel 2001, quando la legge Finocchiaro (legge n. 40 del 2001) ha introdotto modifiche al codice di procedura penale, favorendo l’accesso delle mamme con minori a carico alle misure cautelari alternative alla detenzione;
la legge n. 40 del 2001 ha sancito il primo cambiamento «culturale» in un sistema ancora connotato dall’ideologia tradizionale nei confronti delle madri detenute: per la prima volta si è anteposto l’interesse del minore, la salvaguardia del rapporto genitore-figlio, la difesa dell’unità familiare a valutazioni sull’entità del reato commesso dai genitori;
in attuazione del principio sancito dall’articolo 31 della Costituzione che riconosce il valore sociale della maternità, si è inteso perseguire l’obiettivo di assicurare al bambino un sano sviluppo psicofisico, permettendo alla madre di vivere i primi anni dell’infanzia del minore al di fuori delle mura carcerarie;
la normativa non ha però risolto il problema per le detenute straniere che, in mancanza di fissa dimora, non possono accedere agli arresti domiciliari: per loro e per i loro piccoli l’unica alternativa al carcere sarebbe il trasferimento negli istituti a custodia attenuata. Si tratta degli Icam (istituti a custodia attenuata per madri) e delle case famiglia protette: i primi sono istituti detentivi facenti capo all’amministrazione penitenziaria, le seconde sono invece strutture affidate ai servizi sociali e agli enti locali;
come già accennato, in Italia sono solo due gli Icam esistenti: quello di Milano, nato nel 2007 in via sperimentale e quello di Venezia, inaugurato a luglio 2013. Non esistono invece case famiglia protette: principale ostacolo alla realizzazione di queste ultime, gli oneri a carico degli enti locali;
attualmente, il centro milanese e quello veneziano, da soli, non riescono a garantire spazio per tutti. Le stime si complicano inoltre pensando a quei bambini che, usciti dal carcere e allontanati dalla madre al compimento del terzo anno di età, potrebbero rientrare nella struttura perché ancora minori di sei;
in un’ottica di mantenimento della relazione madre-bambino anche quando questa è detenuta, come stabilito dalla Convenzione dei diritti dell’infanzia, queste strutture sono certamente la soluzione migliore per tutelare l’interesse superiore del minore, ma è fondamentale che dispongano di fondi adeguati;
la legge n. 62 del 2011, benché molto attesa, si scontra di fatto con difficoltà di applicazione e di interpretazione: le misure alternative sono riconosciute, ma in assenza di «esigenze cautelari di eccezionale rilevanza». Con questa specificazione si intende far riferimento a casi di criminalità organizzata piuttosto che di terrorismo, ma nella prassi le esigenze cautelari di eccezionale rilevanza si traducono quasi sempre in un rapporto stretto con la recidiva: ciò significa che una detenuta che ha commesso diverse volte reati anche minori o di minore impatto sociale è considerata particolarmente pericolosa tanto da non poter beneficiare di misure alternative –:
quali rapidi ed opportuni provvedimenti intenda adottare, al fine di rendere pienamente efficace questa riforma.