Una trattativa “difficilissima e molto complessa, perché si stava preparando il pacchetto di interventi più imponente della storia europea”. Con la diffidenza di molti paesi da superare (ad esempio sull’anticipo dei fondi) e la corsa contro il tempo per cercare di farcela entro l’estate.
Irene Tinagli, presidente della Commissione affari economici e finanziari del Parlamento europeo, e oggi anche vicesegretario del Pd, racconta i passaggi più delicati della trattativa che ha portato al varo del Recovery plan e come è stato possibile far salire al 13% l’acconto che a giorni arriverà anche all’Italia. Ora però, avverte, bisogna andare avanti con le riforme, a partire da quella del fisco. Bisogna tenere vivo quello spirito di unità nazionale che sta alla base del governo Draghi e riporre le bandierine di partito. Perché ne va dell’attuazione del Piano di ripresa”.
Riavvolgiamo il nastro e torniamo a fine 2020, far partire il Recovery é stato molto complicato?
Dopo che abbiamo definito la posizione comune del Parlamento europeo, di per sé cosa non facile, non è stato semplice negoziare col Consiglio il testo finale. Perché è espressione dei governi e per di più in quei mesi eravamo sotto presidenza tedesca, coi paesi vicini come Olanda e Finlandia, che già avevano accettato con grande fatica il debito comune di 750 miliardi, che avrebbero voluto regole rigidissime. In quanto presidente della Commissione Econ negoziavo assieme al collega della Commissione Bilancio e tutti ci dicevano di metterci il cuore in pace perché non saremmo riuscite a spuntare niente. In realtà il processo è stato effettivamente molto duro, nei primi negoziati ogni nostra richiesta veniva respinta; poi, invece, grazie ad una squadra negoziale molto determinata siamo riusciti a restare compatti e alla fine abbiamo ottenuto tante cose.
Ad esempio?
L’aumento dell’acconto che abbiamo strappato l’ultima notte. E poi la possibilità di utilizzare una parte dei fondi per alcune determinate spese correnti necessarie per realizzare le riforme, altro passaggio osteggiato da molti, ma che oggi – ad esempio – ci consente di fare tante assunzioni nel campo della giustizia per smaltire gli arretrati e accompagnare la riforma. Oggi sono contenta di vederne i risultati.
Per l’Italia salire dal 10 al 13% significa avere quasi 6 miliardi in più a disposizione. Non poco
E’ il risultato dell’asse italo-spagnolo ed una richiesta esplicita del nostro gruppo politico, i Socialisti e democratici. Questo perché, mentre in quel momento molti paesi e molte delegazioni (che già sapevano che avrebbero chiesto piccoli importi) tendevano a sottovalutare il tema, per i paesi più grossi, che poi erano quelli che avevano sofferto di più gli effetti della pandemia, come Spagna e ltalia, che tra l’altro avevano le difficoltà maggiori anche in termini di bilancio, l’anticipo sarebbe stato molto importante. Anche perché c’era anche un altro elemento…
Quale?
Noi avevamo fatto una vera e propria maratona per chiudere l’accordo sul regolamento entro Natale perché poi c’era da affrontare la partita delle ratifiche e quindi non sapevamo quando sarebbe potuto partire il Recovery plan. E c’era anche chi diceva che sarebbe arrivato solo a fine anno anziché entro l’estate. E poi per alcuni gruppi politici l’idea di dare in anticipo una quota del Recovery rappresentava un atto di fiducia eccessivo. Tanto è vero che il Consiglio, notando un po’ di posizioni diverse, ha provato a spaccare l’unità dei gruppi parlamentari proponendo di introdurre alcune condizionalità legate all’anticipo ma poi non ci sono riusciti.
Adesso arrivano i primi 25 miliardi, i prossimi fondi invece saranno legati al rispetto degli impegni presi dai Paesi.
Sono legati ai cosiddetti “milestones and targets”: ci sono obiettivi sia qualitativi che quantitativi da raggiungere. Gli investimenti sono più facilmente misurabili, mentre i processi di riforma saranno valutati sulla base in un iter.
Abbiamo fatto la riforma della Pa e avviato, a fatica, quella della giustizia, rinviando a settembre fisco e concorrenza. C’è il rischio di nuove turbolenze nella maggioranza?
Tutte le riforme presentano sempre problemi di tipo politico, a maggior ragione con un governo di “unità nazionale” come il nostro che mette assieme forze tanto diverse. Io spero che giochino tre fattori: il primo è la consapevolezza che questa serie di riforme è fondamentale per l’erogazione dei fondi e l’implementazione del Pnrr; il secondo fattore è che parliamo di interventi che sono comunque importanti per l’Italia, andrebbero fatti comunque perché sono fondamentali per la competitività del Paese. Una riforma del fisco che sfoltisca un po’ di stratificazioni, ripristini una maggiore equità, alleggerisca il carico sul ceto medio e superi un po’ le logiche dei bonus va comunque fatta perché la ripresa passa anche da qui.
E il terzo fattore?
Spero che questo clima di unità nazionale, lo spirito che in questi mesi Draghi continua a ricordare, faccia capire a tutti che occorre mettere da parte le bandierine ideologiche perché abbiamo una missione nazionale da compiere. Che poi è quello che aveva detto all’inizio anche il presidente Mattarella. Bisogna fare in modo che questo spirito pur nelle diversità resti vivo. Ne abbiano un tremendo bisogno.