Dal 2013 ad oggi abbiamo mandato in Parlamento il più grande numero di giovani che la storia della Repubblica ricordi. Non ha portato il salto qualitativo sperato. Una schiera di parlamentari fedelissimi, ma con esperienze professionali, internazionali e di studio molto limitate. L’adeguatezza della classe politica non deriva dall’età, ma da una competenza più profonda.
Non è certo una novità di oggi la sensazione che la politica italiana sia poco preparata e attrezzata per le sfide del nostro tempo. Ci sono stati molti momenti, anche nel nostro più recente passato, in cui si sono levate richieste di “rottamazione” nei confronti di una classe politica considerata immobile, inadeguata, incapace di comprendere e affrontare le grandi trasformazioni in atto a livello globale. D’altronde, come potevamo sperare che generazioni di sessantenni e settantenni incapaci persino di inviare email fossero in grado di traghettarci nell’era di internet e del digitale? Ci volevano nuovi politici: giovani, preparati, che avessero dimestichezza con le nuove tecnologie, con le dinamiche della globalizzazione, e anche, banalmente, con le lingue straniere. E così dal 2013 ad oggi abbiamo mandato in parlamento il più grande numero di giovani che la storia della Repubblica abbia visto. Con le elezioni del 2013 i deputati sotto i 35 anni sono passati da un mero 3,8% al 14,6%, quattro volte tanto. E con le elezioni del 2018 hanno raggiunto il 16,7%. Aumentati anche i quarantenni, crollati invece gli over 50.
E allora perché non abbiamo l’impressione di un vero cambiamento, di un salto qualitativo della politica? L’analisi dei profili di circa seimila parlamentari dal 1948 ad oggi ci offre qualche spunto. Non solo si nota un costante calo del livello di istruzione dai parlamentari della prima legislatura a quelli di oggi (passato dal 91% di laureati del 1948 al 70% di oggi), ma si vede come questo calo sia dovuto proprio alle nuove leve che col tempo sono approdate in parlamento. Non solo: rispetto al passato la quota di giovani provenienti dal mondo delle professioni (avvocati, medici, giornalisti) e dell’università è diminuita. E per la prima volta nella storia della repubblica ha fatto il suo ingresso in parlamento una quota non irrilevante di persone senza alcuna occupazione. Il 13% dei parlamentari entrati in parlamento con il Movimento cinque stelle nel 2013 erano studenti o disoccupati e quasi un terzo aveva un reddito da lavoro prima di entrare in parlamento pari a zero: segno di una carriera ancora agli inizi che evidentemente non aveva ancora dato modo di maturare esperienze rilevanti. Curiosamente è aumentata molto la quota di giovani parlamentari pescati tra le fila di partiti: funzionari, segretari locali o consiglieri comunali che spesso hanno sacrificato gli studi per il partito. Un elemento che si nota in modo trasversale in tutte le formazioni politiche, ma che caratterizza in modo particolare la “nuova” lega salviniana. Il 70% dei parlamentari sotto i 35 anni che la Lega ha eletto alle ultime elezioni ha questo tipo di profilo. Il Movimento cinque stelle nel 2013 non aveva ancora amministratori locali ma mise come criterio per la candidatura in parlamento avere alle spalle candidature a delle elezioni locali con il simbolo dei cinque stelle, un segnale molto forte di attaccamento e devozione al movimento. La sensazione che emerge è che molti dei giovani approdati in parlamento siano stati selezionati più in base alla loro fedeltà politica che in base ai profili professionali e alle competenze maturate.
Non sorprende quindi che siano assai pochi i giovani parlamentari che hanno un’esperienza internazionale rilevante o che conoscono l’inglese. D’altronde neppure i leader quarantenni che si sono fronteggiati alle ultime elezioni hanno profili di questo tenore: nessuno tra Renzi, Salvini, Di Maio o Meloni ha avuto esperienze internazionali, neppure l’Erasmus (per la verità, i tre quarti di questi leader non hanno neppure
completato l’università). Insomma volevamo rottamare Bersani, Berlusconi, Bossi e la politica fatta di correnti e obbedienza ai capi per fare entrare in parlamento giovani innovatori, internazionali, lontani dalle vecchie logiche partitiche, e invece ci siamo ritrovati con una schiera di giovani e fedelissimi esecutori di ordini, guidati da giovani leader brillanti, politicamente abili e straordinariamente comunicativi, ma con esperienze professionali, internazionali e di studio molto limitate. Forse abbiamo sbagliato bersaglio, non abbiamo capito che l’adeguatezza della nostra classe politica non deriva tanto dall’età, dal numero di mandati o dalla capacità di maneggiare Twitter, ma, semplicemente, da una competenza più profonda, dalla capacità di studiare, elaborare, da una dimensione culturale ed internazionale di alto livello. Tutte cose che stentiamo a vedere.
Finchè non cominceremo a esigere dai nostri politici non solo un cambiamento di volti ma dei criteri di selezione e delle logiche di “carriera”, difficilmente potremo vedere quel salto di qualità che servirebbe per
invertire davvero rotta.