La Stampa, 2 Novembre 2014
di Irene Tinagli
Come molti hanno notato, l’attenzione dedicata da Obama al divario salariale tra uomini e donne nel suo discorso alla Nazione ha un forte sapore elettorale. Eppure, dietro la mossa politica si nasconde un problema reale, che neppure un Paese moderno e in crescita come gli Stati Uniti riesce a scrollarsi di dosso. Ancora oggi infatti, secondo le statistiche, le donne americane guadagnano circa il 23% in meno dei loro colleghi uomini.
Di solito si attribuisce questa differenza a pratiche discriminatorie, legate in parte al fatto che le donne tendono ad essere maggiormente impiegate in settori con salari medi più bassi (pulizie, assistenza agli anziani, insegnamento), in altra parte al fatto che spesso si vedono proporre offerte economiche economiche più basse che, per insicurezza, fanno fatica a negoziare al rialzo.
Anche per questo Obama insiste sul suo cavallo di battaglia: aumentare il salario minimo orario. Una misura che aiuterebbe queste donne discriminate e relegate in posizione di debolezza. Una misura semplice, lineare, facilmente comunicabile a una larga fetta di elettorato a pochi giorni dalle elezioni di medio termine.
Ma, come spesso accade, dietro gli slogan elettorali si nasconde una realtà assai più complicata. Studi degli ultimi anni ci dicono che il minor guadagno delle donne rispetto ai colleghi uomini, più che a pratiche salariali discriminatorie, è in larga parte legato a delle loro scelte. Una ricerca del Ministero del Lavoro americano e pubblicata nel 2009 ha mostrato che buona parte del divario è dovuto a fattori come: quantità di ore lavorate, tipologia di laurea conseguita e occupazione specifica.
Le donne tendono ad avere lavori con orari regolari e meno straordinari, hanno solitamente titoli di laurea che hanno meno valore sul mercato del lavoro, e finiscono per essere impiegate in lavori con retribuzioni più basse. Infatti, anche se i dati sul divario salariale tra uomini e donne sono presentati come “divergenze di salari a parità di lavoro”, in realtà le statistiche fanno riferimento a categorie occupazionali dentro le quali convivono lavori anche molto diversi. Per esempio in alcuni studi ricadono nella stessa categoria sia gli avvocati che i bibliotecari, nonostante i primi abbiano salari molto alti (e una prevalenza maschile) mentre i secondi abbiano retribuzioni più basse (e una netta prevalenza femminile). Ecco, se teniamo in conto questi fattori, la percentuale di divario salariale dovuta ad effettiva discriminazione si attesterebbe intorno al 5-7% o anche meno.
Da queste analisi si potrebbe concludere che se le donne guadagnano meno è perchè lo scelgono. Ma è davvero così? Sarebbe interessante capire se veramente le donne preferiscono lavorare meno ore per poter accudire gli anziani o i bambini di casa. Se davvero preferiscono studiare materie che le portino a fare le bibliotecarie (un lavoro che si concilia meglio con la famiglia) piuttosto che a diventare avvocatesse, cardiochirurghe, ingegnere o scienziate. E se davvero non vorrebbero poter negoziare il loro stipendio anzichè utilizzare tutti i margini di negoziazione su congedi di maternità o malattie dei figli (e in effetti alcune ricerche mostrano che le donne rispetto ai soldi preferiscono negoziare benefit non monetari, come per esempio una migliore copertura sanitaria per loro e per i figli).
Insomma, gira e rigira, si torna sempre lì: i figli, la famiglia, la difficoltà di conciliazione tra vita e lavoro. Ecco il vero nodo. D’altronde non è un caso se, come ha denunciato anche la famosa manager Sharyl Sandberg nel suo libro “Lean In”, il 43% delle donne istruite e potenzialmente in carriera lasciano il lavoro quando hanno figli. E non è un caso se invece tra le donne sotto i trentanni, single e senza figli, il divario salariale negli Stati Uniti quasi si azzera. Anzi, nelle grandi città gli stipendi delle giovani donne single hanno superato quelli dei colleghi maschi. Di fronte a questa realtà così articolata e complessa, misure monetarie come il salario minimo serviranno probabilmente a smuovere voti, ma non a cambiare davvero le “scelte” e la vita lavorativa delle donne.