Potremmo trovarci dentro una congiuntura micidiale»: meno margini per la spesa pubblica, e una banca centrale meno generosa. «È bene iniziarne a discutere». Irene Tinagli, classe 1974, dopo la nomina a vice di Enrico Letta nel Partito Democratico si divide fra Bruxelles, Roma e Milano, dove vive il figlio di 7 anni. Da presidente della Commissione economia del Parlamento europeo questo weekend ha partecipato al vertice dei ministri finanziari in Portogallo, dove si è discusso di un argomento rilevante per l’Italia: il ritorno al patto di Stabilità, invocato dal blocco dei Paesi nordici.
Tinagli, partiamo dall’inizio: la proposta di Letta per il ripristino della tassa di successione. Che ne pensa?
«Sono piuttosto sorpresa dalla polemica. In Italia abbiamo notoriamente un fisco sbilanciato che tassa troppo il lavoro e troppo poco le eredità. Abbiamo un welfare sbilanciato sugli anziani e una mobilità sociale bassissima: i figli dei poveri restano poveri, i figli dei ricchi sono sempre più ricchi. Di equità distributiva in uscita dalla pandemia stanno discutendo tutti i governi del mondo, a partire da quello americano. Letta ha fatto una proposta che val la pena di essere discussa, non ha emanato un decreto».
Forse il segretario ha sbagliato i tempi? Non crede che parlare di tasse in questo momento sia scivoloso?
«Spiace solo che la polemica si sia innescata nelle ore in cui abbiamo contribuito ad approvare il decreto Sostegni-bis, dove ci sono molte misure a favore di lavoratori e imprese volute anzitutto dal Pd. Il discorso andrà approfondito dentro la riforma fiscale. Io ad esempio penso che una tassa di successione di quel tipo debba escludere i rami di azienda».
Draghi ha stroncato la proposta di Letta. O no?
«In questo momento il premier ha la preoccupazione di tenere insieme una maggioranza politica piuttosto larga. Ai partiti spettano le proposte, a lui la sintesi».
La proposta del segretario Pd ha comunque un merito: ci ha fatto ricordare che non possiamo accumulare debito all’infinito. Sbaglio?
«Vengo dalla riunione dell’Eurogruppo, dove si è appunto iniziato a discutere del ritorno al Patto di Stabilità. Al momento la sua sospensione è prevista fino alla fine del 2022, una scadenza che ad alcuni potrà sembrare lontana ed invece è vicinissima. Al vertice ho detto che non è possibile tornare alle vecchie regole pre-pandemia, ma occorre discutere sin da adesso di una sua riforma. Capisco le cautele del vicepresidente Dombrovskis (responsabile del dossier, ndr) e le difficoltà legate all’approvazione del Recovery Plan, ma non possiamo tenere la testa sotto la sabbia».
A che riforma pensa?
«Se vogliamo cogliere fino in fondo l’occasione del Recovery Plan, occorreranno investimenti enormi anche negli anni successivi. Occorre introdurre qualcosa che assomigli ad una regola aurea per lo scorporo di alcune tipologie di investimenti dal deficit».
Nel frattempo la Banca centrale europea inizierà a discutere il superamento del piano antipandemico, che oggi permette a Francoforte di acquistare tutto il debito di cui l’Italia ha bisogno. La scadenza è fra meno di un anno, a marzo del 2022. La presidente Christine Lagarde continua a dire che il piano verrà prolungato, ma dai Paesi nordici cominciano ad arrivare proposte per un’uscita ordinata. Che fare?
«Lo dico chiaramente: ho il timore che l’Europa e l’Italia si possano trovare di fronte contemporaneamente a politiche fiscali e monetarie restrittive. Per noi italiani sarebbe una congiuntura micidiale, esattamente ciò che provocò la doppia recessione, prima nel 2008, poi nel 2011-2012. Fra gli economisti il tema è ampiamente dibattuto, fra i politici meno».
A proposito: è vero che l’avvio del Recovery Plan potrebbe slittare a settembre? Ci sono nove Paesi che non hanno ancora presentato il piano, cinque non hanno ratificato l’accordo sulle risorse proprie, la condizione necessaria a far partire il processo. Per l’Italia significherebbe attendere altri mesi per ottenere la prima tranche di aiuti a fondo perduto, circa 25 miliardi.
«Il rischio potrebbe esserci. Ciascuno è vittima delle polemiche nei rispettivi Paesi, e questo non aiuta. Ma voglio essere ottimista: sembrava che il grande punto interrogativo fosse la ratifica della Finlandia, ora quella ratifica c’è».
Mancano Polonia, Ungheria, Romania. Tutti beneficiari netti di aiuti europei, peraltro.
«Occorre più unità politica».
Lei pensa che l’autorevolezza di Mario Draghi possa essere utile all’Unione anche se eletto al Quirinale?
«La stabilità politica di un Paese è importante sempre. Ciò che mi impressiona quando rientro in Italia è la superficialità con la quale viene raccontato il Recovery Plan. Molti pensano che sia tutto finito, e invece il difficile inizia ora. Abbiamo tempo fino al 2023 per impegnare le risorse e far partire i progetti. E’ domani».
Non mi ha risposto su Draghi.
«Io mi auguro che resti a Palazzo Chigi il più a lungo possibile. Mi sembra sia ciò che auspicano anche qui a Bruxelles».